martedì 25 novembre 2014

BINARIO 2 OVEST

Sala d’attesa della stazione di Bologna. Una ragazza, seduta una fila davanti a te, beve da una bottiglietta d’acqua. Un signore, anche lui seduto di fronte a te, non fa niente se non guardare in giro e pensare, qualche volta appoggiando la testa sulla mano e il gomito sulla gamba. Un’altra ragazza, seduta con le gambe incrociate sulla tua sinistra, studia, mentre il signore seduto di fianco a lei scorre il dito sul suo smartphone. Due donne, sedute alla tua destra, parlano in arabo, mentre la coppia dietro di te parla in inglese, lodando Bologna e il suo centro pieno di gente. Un treno sfreccia al binario 1, spostando una quantità d’aria e di rumore sufficienti a catturare l’attenzione dei presenti: per un attimo basta conversazioni, basta studio, basta pensieri. L’attenzione di tutti è catturata da un treno in movimento. Pochi secondi e torna la quiete, e con essa l’attesa delle persone.

Cammini per le vie della stazione e i suoi binari, con la tracolla che sbatte sulla tua gamba destra e la valigia nera piena di vestiti appallottolati per la fretta. Cammini e pensi che hai sempre amato le stazioni ferroviarie. Hai sempre amato quel via vai di persone di tutti i tipi: uomini, donne, bambini, biondi, mori, rossi, alti, bassi, italiani, stranieri, europei, asiatici, sudamericani, africani. Persone di fretta, calme, da sole, accompagnate. Altre cariche di valigie, borse, borsoni, trolley, altre semplicemente libere da ogni tipo di peso. Hai sempre amato le stazioni dei treni perché ti hanno sempre dato la possibilità di osservare: la razza, il sesso, le abitudini, i comportamenti, i sentimenti. Hai sempre osservato, appuntato nella tua mente ciò che ti colpiva, ciò che ti cambiava, anche solo per un attimo, la giornata. Hai osservato le persone mentre leggevano, mentre dormivano, mentre ascoltavano la musica o leggevano qualcosa sullo smartphone, mentre parlavano al cellulare o con un compagno di viaggio. A volte semplicemente mentre guardavano fuori dal finestrino. Hai immaginato le loro mete, i loro orari, i loro modi di viaggiare, osservando i bagagli, l’abbigliamento, se viaggiavano da sole o accompagnate. Hai visto le persone alle prese con il tempo, mentre guardavano l’orario sul loro orologio o sul telefono, oppure al tabellone degli arrivi e delle partenze alla stazione nelle sale d’attesa, ai binari o nei sottopassaggi. Hai visto le persone correre per prendere una coincidenza, oppure rilassarsi al bar con un caffè o un gelato oppure sedute ad un angolo a pranzare con un panino comprato o fatto al volo a casa. Hai visto le persone scendere da un treno mentre qualcuno le aspettava, ne hai viste altre invece salire per andare a trovare qualcuno, magari per fare una sorpresa. Hai visto universitari studiare in posizioni scomode sui sedili o seduti sulle valigie e pendolari con la loro ventiquattrore di pelle appoggiata sulle gambe. Hai visto persone che stavano affrontando un lungo viaggio e altre semplicemente tornare a casa dalla loro famiglia. Hai sempre amato le stazioni, perché le hai sempre trovate la metafora perfetta della vita. Già, perché nella vita si sta come su un treno: c’è chi sale e c’è chi scende, chi sta seduto comodamente e chi invece sta in piedi alla ricerca quasi disperata di un posto a sedere, c’è chi viaggia leggero e chi invece viaggia pesante, carico di problemi, domande e pensieri. C’è anche chi soffoca in un wc maleodorante perché è l’unico posto che ha trovato e ogni tanto, nella vita, un po’ di merda la devi pur sopportare. Infine c’è anche chi dal treno viene proprio travolto, perché la merda è diventata troppa e insopportabile. 



Pensi a tutto questo mentre ti siedi su una panchina della stazione di Bologna con il tuo computer appoggiato sulle gambe. Osservi la stazione dal binario 2 ovest, mentre pendolari e studenti invadono ogni spazio. Osservi e scrivi, scrivi e pensi, pensi e ricordi, ricordi e immagini cosa ancora potrai vedere.

lunedì 17 novembre 2014

BLACK MIRROR: LA DERIVA DELLA TECNOLOGIA IN UNA SERIE TELEVISIVA

Solo un decennio fa poter fare chiamate, mandare messaggi e fare registrazioni audio era una vera e propria novità in grado di cambiare gli stili di vita: con il telefono cellulare (il primo fu inventato da Martin Cooper, direttore della sezione Ricerca e sviluppo della Motorola nel 1973 ed era grande quanto una valigetta... diciamo un telefono portabile ma scomodo) era possibile scambiarsi velocemente messaggi, i famosi SMS e chiamare una persona senza dover entrare in una cabina telefonica. I primi avevano lo schermo in bianco e nero, poi arrivarono i modelli a colori, poi quelli con cui potevi fare i video e le foto, infine oggi gli smartphone, dei veri e propri mini computer con i quali si può fare tutto. Forse anche troppo. In un decennio il mercato della tecnologia si è concentrato tutto sullo smartphone, il telefono intelligente. Fotocamere, videocamere, computer, agende, registratori vocali: tutto concentrato in un semplice telefono dove fare una telefonata non è più la funzione principale. Addirittura grazie a questo semplice apparecchio rettangolare si possono fare collegamenti live, reportage, documentari, film e quant'altro: basti vedere le tecniche del giornalismo moderno e il citizen journalism. Smartphone, tablet, televisioni digitali, schermi in 3D: la tecnologia non si ferma, corre veloce. Dieci anni fa chiamare da un cellulare era una rivoluzione comunicativa e certamente nessuno avrebbe pensato allo smartphone. La domanda è: fra dieci anni cosa ci sarà? Come comunicheremo? Oggi si parla di una società super connessa, digitale, multimediale, nella quale si sta perdendo il contatto fisico con le persone, nella quale la natura mediale supera quella umana e relazionale. Siamo nell'era di Skype, di Oovoo, dei social network, di WhatsApp: proprio quest'ultima app, con le due spunte blu che permettono di verificare se il destinatario ha letto o meno il messaggio, sta sempre più regolando i rapporti delle persone (non a caso Facebook ci ha speso un bel po' di soldi per comprarsela). 
Immagine tratta da blogosfere.it

E fra dieci anni? Già, fra dieci anni, cosa ci sarà invece? Charlie Brooker ha ideato una serie televisiva, Black Mirror, giunta alla seconda stagione: ognuna contiene tre episodi, le cui trame sono scollegate e indipendenti, nei quali si cerca di immaginare quella che può essere la deriva di una società nella quale la tecnologia cresce a dismisura diventando il pilastro centrale della vita dell'uomo. Cip della memoria, schermi sui quali guardare i propri ricordi, avatar, esperienze virtuali: questo potrà essere realmente il futuro, una realtà virtuale fatta di Google glass all'ennesima potenza. L'uomo e la tecnologia, un rapporto che ha sempre avuto nel progresso scientifico il suo pilastro, tutto per migliorare la vita dell'uomo. Oppure per peggiorarla... 

lunedì 10 novembre 2014

C'ERA UNA VOLTA IL CALCIO

È domenica. Ti siedi sul divano comodo, in una giornata di pioggia battente che chiude una settimana di ombrelli e impermeabili. Accendi la tv, ti sintonizzi su Sky, pronto a goderti un pomeriggio di Diretta Gol. Il Milan ha giocato nell'anticipo con la Samp, così come il Sassuolo con l'Atalanta. L'Inter gioca nel posticipo con il Verona, così come la Roma con il Torino, poco dopo la sfida fra Fiorentina e Napoli. Il pomeriggio ti regala solo cinque partite, anzi quattro... Genoa e Cagliari hanno giocato a mezzogiorno e mezzo. Merito dei diritti televisivi e del calcio spezzatino. Iniziano le partite e vedi la Juve in maglia blu. "Ma aspetta un attimo, gioca in casa... perché la maglia blu?", ti chiedi. Quando ti rendi conto che il Parma, la squadra ospite, gioca con una maglia verde fosforescente: "E questa da dove l'hanno tirata fuori? Boh!". Poco male, Diretta Gol passa alla partita di Empoli e vedi la squadra avversaria con la maglia granata: "Ma il Torino non giocava stasera con la Roma? Ah, aspetta... è la Lazio". La Lazio con la maglia granata non te la ricordi, fai uno sforzo di memoria ma... proprio non te la ricordi. Intanto pensi all'Inter che gioca la sera... vince, non vince.. boh, di questi tempi è un mistero anche quello, ma mai quanto la scelta della prima maglia quasi tutta nera a strisce blu sottilissime, quasi invisibili. Per non parlare della terza maglia, blu acceso, roba da farti venire il mal di testa. Poi vabbé, sembra roba figa questa delle maglie strane... le usano pure per le partite europee! L'Inter sempre in blu fluo, la Juve addirittura in verde acceso contro l'Atletico. Per non parlare del fatto che qualche anno fa l'Inter aveva la maglia rossa e la Juve rosa. L'unica squadra che sembra avere una terza maglia decente è la Roma, che si veste di nero. Una maglia sobria, se confrontata alle altre diciamo... originali. Poi oh, potrebbe andare anche peggio, a Napoli giocano con una maglia stile jeans... per non parlare dell'anno scorso che avevano la maglia mimetica come i militari!
Immagine di Sky Sport

No, purtroppo non è pazzia. Le squadre di calcio, oggi, giocano davvero con delle divise che sembrano dei pigiami. Merito del marketing, della moda (?) ormai sbarcata anche nello sport. Ci eravamo appena abituati alle scarpe di colori assurdi. Gialle, arancioni, rosse, blu, verdi, addirittura la scarpa destra di un colore e quella sinistra di un altro. Adesso tocca alle maglie. Una volta erano larghe, con i numeri e i nomi enormi, quasi appena stampati. No, oggi no. Oggi i giocatori entrano in campo quasi come se dovessero fare una sfilata. Pettinati, palestrati, infighettati nelle loro maglie cool e nelle loro scarpe estrose. Eppure qualche anno fa entravano vestiti solo di grinta e voglia di giocare a calcio. No, purtroppo non è pazzia. È realtà. E la realtà è che oggi il calcio non è più uno sport ma un business, dove conta più l'immagine, la società sportiva intesa più come brand commerciale che come squadra, il giocatore come immagine di copertina che come sportivo. Il tutto sotto l'egemonia degli sponsor, che tengono in scacco calciatori e società attraverso contratti milionari, ai quali non si può rinunciare. Sponsor che controllano le partite, sempre più eventi mediatici e pubblicitari che incontri sportivi, che controllano i calciatori, sempre più testimonial di pubblicità, che controllano le società stesse, mutandone, pian piano, l'identità e la storia, semplicemente cambiandone i colori delle maglie. Prima c'era il nerazzurro, il rossonero, il bianconero, il giallorosso, il granata, il biancoceleste: oggi c'è il rosso, il rosa, il nero patinato, il verde, il giallo e il blu fluo. Colori sgargianti, per alcuni entusiasmanti, in un calcio che di entusiasmante ha sempre di meno. 

sabato 25 ottobre 2014

LIBRERIA EDITRICE VATICANA A PORDENONE

Ad un mese dalla conclusione di Pordenonelegge, Pordenone ha ospitato un'altra rassegna culturale molto interessante legata al libro: si è infatti oggi conclusa la VIII edizione de La Libreria Editrice Vaticana a Pordenone, quest'anno dal titolo Ascoltare, leggere, crescere. Una serie di incontri che hanno interessato la città e dintorni attraverso incontri con esperti della comunicazione vaticana, esponenti del clero e membri della Chiesa cattolica: uno degli incontri più importanti è stato quello che ha visto il Duomo ospitare il Card. Kasper, uno dei protagonisti principali del Sinodo straordinario sulla famiglia, il quale ha parlato, nel corso di una conversazione con il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, dal titolo "La famiglia nell'amore coniugale", delle dinamiche che hanno mosso i lavori dei padri sinodali durante i dibattiti circa tematiche delicate quali la Comunione ai divorziati e ai risposati, la questione omosessualità e la crisi della famiglia e della società. Kasper ha trattato aspetti teologici ma anche sociali e culturali, non dimenticando di sottolineare come la famiglia sia espressione dell'amore del Vangelo ma soprattutto come i diritti ad essa relativi debbano essere tutelati non solo dalla Chiesa ma anche dallo Stato. Le polemiche circa la presunta divisione dei vescovi sono state sgonfiate dal teologo tedesco, che ha ribadito come "la Chiesa non sia uno Stato totalitario e che le opinioni diverse sono normali", come evidenziato anche da Papa Francesco. Pontefice che è stato il leit motiv della rassegna, con alcuni incontri dedicati al suo Pontificato, dal rapporto con i predecessori nel segno della continuità alla sua dirompente comunicazione, approfondita da relatori del calibro di Antonio Spadaro, direttore de La Civiltà Cattolica, di Angelo Scelzo, vicedirettore della Sala Stampa della Santa Sede, e di Massimo Enrico Milone, responsabile di Rai Vaticano: una comunicazione in continuità con Giovanni Paolo II per quanto riguarda la forza comunicativa dei gesti simbolici, ma anche con Benedetto XVI per quanto riguarda l'apertura al web.
Ma anche i temi etici sono stati protagonisti dell'edizione, dalla "Responsabilità dell'uomo davanti alla vita"al "Diritto del minore alla bigenitorialità", passando per "Lo sport come strumento e via per la pace e la valorizzazione di ogni persona umana, con la partecipazione di grandi figure come  il giornalista Italo Cucci, il direttore della LEV don Giuseppe Costa e l'attore Moni Ovadia. 
Una rassegna densa di eventi e di argomenti, nella quale il libro "presuppone la disponibilità anche materiale di porsi in un atteggiamento di ascolto, di curiosità e meditazione". E allora forza, ascoltiamo, leggiamo e cresciamo, proprio come esorta Papa Francesco nella sua cultura dell'incontro incentrata sul dialogo e la comprensione.  

mercoledì 15 ottobre 2014

SERBIA VS ALBANIA: POLITICA PIÙ CHE CALCIO


41 minuti. Tanto è durata la sfida fra Serbia e Albania, valevole per le qualificazioni agli Europei del 2016. Al lancio di fumogeni in campo l'arbitro inglese Atkinson ha sospeso la partita, sul risultato di parità di 0 a 0. Ma ad alzare la già tesa situazione ci ha pensato un drone con attaccata la bandiera della Grande Albania con raffigurata l'immagine di un leader degli indipendentisti kosovari ucciso nel '98 dalle milizie serbe, la scritta Authochtonos e la data 1912 ad indicare la rivolta albanese in Kosovo. In campo la rissa fra i giocatori delle due nazionali è scoppiata quando il serbo Mitrovic ha strappato il vessillo, provocando la dura reazione dei giocatori albanesi. All'escalation di tensione in campo è seguita quella sugli spalti, dai quali sono volati oggetti - fra i quali seggiolini - e altri fumogeni, costringendo le due squadre a rientrare negli spogliatoi (qui il video). La partita è finita quindi qui, con i giocatori albanesi che non hanno accettato l'invito dell'arbitro a riprendere il gioco, data la non sussistenza delle condizioni  adatte per ricominciare la gara. Quello che ha sorpreso - ma forse non troppo - è stata la presenza in campo di Bogdanov, l'ultras serbo arrestato nel 2010 a Genova per i disordini di Italia vs Serbia, noto come Ivan il Terribile

Bogdanov scende in campo (immagine de La Stampa)
L'ultras sarebbe sceso in campo per trattare e far valere le sue posizioni politiche. Politica che purtroppo si è ancora una volta mischiata al calcio e allo sport, snaturandone la bellezza. La partita fra le due nazionali è diventata purtroppo non il terreno di gioco di un confronto sportivo ma il terreno di uno scontro ideologico e nazionalista fra due Paesi storicamente in conflitto per questioni di indipendenza territoriale ed etnica, tanto che l'ingresso allo stadio era vietato ai tifosi albanesi, essendo permesso l'accesso solo ai possessori del passaporto serbo. Secondo le ultime indiscrezioni il drone sarebbe stato pilotato dall'interno dello stadio da Orfi Rama, fratello del primo ministro albanese, il quale sarebbe già stato arrestato dalle autorità locali. Insomma, un'altra brutta pagina di politica che si impone sullo sport aizzando i nazionalismi di Paesi che ancora hanno vivo il ricordo delle recenti guerre per l'autoaffermazione e l'indipendenza. 

L'attaccante serbo Mitrovic strappa la bandiera attaccata al drone,
provocando la reazione degli albanesi (foto Sky Sport)



martedì 14 ottobre 2014

IL CALCIO DI OGGI INZUPPATO DI CRITICHE

Italia vs Azerbaijan 2 a 1 e Malta vs Italia 0 a 1. Due vittorie che si aggiungono a quella in Norvegia per 2 a 0 e che mandano la Nazionale italiana in testa al girone H insieme alla Croazia (prima per differenza reti). Italia a punteggio pieno con tre vittorie in tre partite nella corsa alle qualificazioni per Euro2016, alle quali si aggiunge la vittoria per 2 a 0 in amichevole contro l'Olanda per l'esordio di Conte sulla panchina italiana: un segnale sicuramente positivo dopo la debacle del Mondiale in Brasile di appena qualche mese fa. Ma la Nazionale di Conte non ha per niente brillato, questo è doveroso dirlo: solo un gol di scarto nelle vittorie contro due squadre non certo irresistibili, diciamo le più facili del girone. Un po’ fuori luogo è però la pioggia di critiche che sta piovendo sulla Nazionale, accusata di essere lenta, impacciata, poco fluida nella manovra e capace solo di sfruttare le palle inattive e quindi il gioco aereo. Sono critiche che ci stanno e che hanno sicuramente del vero: nelle ultime due partite i gol sono venuti da calci d’angolo, come testimoniano i due colpi di testa vincenti di Chiellini contro gli azeri e il tap-in lesto di Pellè su respinta del portiere contro Malta. Sorge però spontanea una domanda: di che Nazionale si parlerebbe oggi se le tre traverse e i due pali colpiti nel corso delle due partite fossero stati invece gol? Se Italia vs Azerbaijan fosse finita 3 a 0 (dato che il gol degli azeri è stato un autogol di Chiellini) e Malta vs Italia 0 a 5 (o quantomeno con più di un gol di scarto), si parlerebbe di una Nazionale impacciata e inconcludente in attacco? Probabilmente no. Si descriverebbe una squadra in grado di imporsi sull’avversario a suon di gol e solidità difensiva. Certo, con i se e con i ma tutto è possibile e opinabile. Quello che preme dire è che bisognerebbe iniziare a smettere di dar fiato a continue critiche: non è pensabile ritrovarsi una Nazionale votata al calcio spettacolo ad appena tre mesi da un Mondiale disastroso (il secondo consecutivo), con tanto di cambio del c.t., dello staff e di molti giocatori. Dopotutto c'è anche chi sta peggio di noi, basti pensare alla Spagna e all'Olanda. Lasciamo tempo a Conte per lavorare: dopo il Brasile si è auspicato un cambio di rotta e più fiducia ai giovani. Conte lo sta facendo, ma nulla viene dal nulla. Quindi basta pressioni mediatiche e più fiducia e… tifo!


#ForzaAzzurri!

venerdì 3 ottobre 2014

LA CONTINUITÀ PASTORALE DI BERGOGLIO, RATZINGER E WOJTYLA

Oggi, grazie a Papa Francesco, la Chiesa Cattolica sta vivendo un momento di grazia, sia per quanto riguarda il recupero di credibilità agli occhi dell'opinione pubblica dopo i vari scandali, da quelli finanziari dello IOR a Vatileaks, sia per quanto riguarda l'aspetto pastorale, con il recupero di fedeli in un momento storico molto difficile per la fede cristiana, sempre più stretta all'interno di una società secolarizzata e globalizzata. Per questo Francesco è stato definito "rivoluzionario", una sorta di super-eroe in grado di attrarre simpatia e benevolenza riportando la gente in chiesa. Sì, è vero. Francesco ha risvegliato il senso di appartenenza alla fede cristiana, l'attenzione verso i poveri, la necessità di riscoprire la quotidianità attraverso la semplicità. Ma è lui stesso a rifiutare l'appellativo di super-eroe, o di super-Pope, sottolineando come al centro sia fondamentale mettere Cristo e non l'uomo: "Sono un peccatore cui Dio ha guardato", ha dichiarato Francesco nell'intervista/dialogo con Scalfari, fondatore del quotidiano Repubblica. Una frase che denota l'umiltà del Pontefice argentino, che non cerca gloria né privilegi, ma la povertà di chi è in difficoltà per incontrare Cristo, per portare la gente a Lui. Vivere a Santa Marta, in mezzo alla gente, è per Francesco "una necessità, per motivi psicologici", così come rinunciare a privilegi e lussi. Ma attenzione: questa umiltà non deve essere considerata una novità assoluta per la Chiesa! Francesco non ha portato l'umiltà e la povertà in Vaticano, ma l'ha solo rispolverata, l'ha risvegliata dal sonno in cui era caduta negli ultimi tempi. Francesco, più che un rivoluzionario, è forse più un riformatore, più attento a ricordare quali sono i cardini su cui vive la Chiesa, piuttosto che portare una rivoluzione, la quale richiederebbe buttare giù tutto per ricostruire da capo. Francesco sta operando in continuità con Benedetto XVI e con Giovanni Paolo II, semplicemente in maniera diversa in quanto ogni Papa, come ogni uomo, è diverso da un altro, ha carismi propri che si adattano alle necessità del tempo in cui la Chiesa vive. L'umiltà di Francesco è il prolungamento dell'umiltà di Benedetto, coraggioso nelle sua rinuncia al Pontificato in quanto umile nel riconoscere i suoi limiti fisici. Umiltà, quest'ultima, che è il prolungamento di quella di Wojtyla, umile nel sapersi mostrare sofferente nella malattia, comunicando attraverso di essa la sofferenza di Cristo. Sofferenza fisica che ha accompagnato Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, portandoli sì a scelte diverse (uno a continuare il suo Magistero, l'altro a rinunciarci) ma con un obiettivo comune: il bene della Chiesa. Bene della Chiesa che adesso è l'obiettivo di Francesco, portando avanti l'opera di riforma già iniziata da Benedetto XVI (a discapito delle critiche faziose di media e lobby), il quale portò avanti a sua volta l'opera di riforma di Giovanni Paolo II. Francesco oggi parla di una Chiesa umile e povera, paragonandola ad un "ospedale da campo" nel quale è necessario curare tutti senza distinzioni di razza, genere, orientamento sessuale o status sociale: in questo senso Francesco parla spesso di giustizia, ma anche di perdono. Un perdono che è più forte del giudizio e del pregiudizio, che non deve dimenticare il torto ma semplicemente guarirlo. Un perdono tanto predicato da Francesco e che non trova esempi migliori se non nei suoi due predecessori, capaci di perdonare un attentato alla propria vita, come fece Giovanni Paolo II con Alì Agca, e un tradimento, come fece Benedetto XVI con il suo maggiordomo personale, Paolo Gabriele. Umiltà e perdono non sono quindi delle novità portate da Francesco, ma sono solo cardini della Chiesa rispolverati e ricordati attraverso gli esempi di Woityla e Ratzinger, ma soprattutto in una continuità pastorale con essi. Per il bene della Chiesa. 



Immagine tratta da www.traditio.com 

giovedì 17 luglio 2014

I MISTERIOSI COLLOQUI FRA SCALFARI E PAPA FRANCESCO


Il 14 luglio 2014 padre Lombardi, direttore della Sala Stampa Vaticana, attraverso una nota comparsa sul sito www.news.va, uno dei canali ufficiali della Santa Sede, ha precisato come le parole attribuite da Eugenio Scalfari a papa Francesco in un articolo comparso su La Repubblica il 13 luglio fossero frutto della sua memoria di esperto giornalista, ma non di trascrizione precisa di una registrazione e tantomeno di revisione da parte dell’interessato, a cui le affermazioni vengono attribuite”. Una presa di distanza da quella che è stata diffusa come intervista da parte dei media e da Repubblica: Non si può e non si deve quindi parlare in alcun modo di un’intervista nel senso abituale del termine, come se si riportasse una serie di domande e di risposte che rispecchiano con fedeltà e certezza il pensiero preciso dell’interlocutore”. Parole dure da parte di Lombardi, che non si è nemmeno risparmiato di alludere a possibili manipolazioni di senso: “Nell’articolo pubblicato su Repubblica queste due affermazioni vengono chiaramente attribuite al Papa, ma – curiosamente - le virgolette vengono aperte prima, ma poi non vengono chiuse. Semplicemente mancano le virgolette di chiusura…Dimenticanza o esplicito riconoscimento che si sta facendo una manipolazione per i lettori ingenui?”. Di certo è facilmente intuibile come il colloquio fra Scalfari e il Pontefice non sia stato gradito in Vaticano nei termini coi quali è stato riportato: i virgolettati utilizzati dal fondatore di Repubblica hanno infastidito la Santa Sede in quanto attribuivano al papa frasi particolarmente delicate su temi quali la pedofilia e il celibato dei preti, come precisato da p. Lombardi nella nota. Ma soprattutto in Vaticano non hanno gradito tale “intervista” perché già infastiditi da un recente precedente: il dialogo-intervista avvenuto sempre fra Scalfari e Bergoglio. Era il primo ottobre del 2013 quando sul quotidiano La Repubblica comparve la lunga intervista rilasciata dal Pontefice al noto giornalista: un colloquio che sanciva il dialogo fra credenti e non credenti, emblema della cultura dell'incontro professata da Francesco. Eppure anche in quella occasione i virgolettati attribuiti da Scalfari al papa argentino furono oggetto di polemiche e precisazioni da parte di Lombardi, tanto che l'intervista fu poi cancellata dal sito web ufficiale della Santa Sede. Scalfari si giustificò sostenendo che in cinquant'anni di interviste non si era mai servito né di appunti né di registrazioni nella redazione degli articoli, affidandosi semplicemente alla sua memoria attraverso la quale ricostruire gli incontri. Inoltre il giornalista sostiene di aver avuto anche l'autorizzazione esplicita sia da parte di mons. Xuereb, segretario di Francesco, sia dal Pontefice stesso. Le due (presunte) interviste hanno scatenato un acceso dibattito, nel quale sono fioccate critiche a Scalfari (in particolare da Antonio Socci) e anche allo stesso Francesco, colpevole secondo alcuni di essere troppo aperto a posizioni progressiste. Senza entrare nel merito delle frasi attribuite al papa e senza questionare sulla onestà del fondatore di Repubblica, quello che lascia perplessi è l'operato giornalistico di Scalfari. È davvero possibile affidarsi completamente alla propria memoria nella strutturazione di un articolo piuttosto che di una intervista? Quello che dovrebbe caratterizzare l'operato di un giornalista è la narrazione completa e oggettiva dei fatti, lasciando all'interpretazione e ai commenti personali uno spazio relativo, per non influenzare in alcun modo il lettore, in modo da permettergli la formulazione di un pensiero proprio. Scalfari a dire il vero non parla mai esplicitamente di interviste ma di colloqui con il Pontefice: il problema è che poi negli articoli comparsi su Repubblica la struttura utilizzata è quella delle interviste. È possibile dunque attribuire all'intervistato delle frasi senza essere sicuri della loro veridicità? Questo dovrebbe essere il primo passo in ogni lavoro giornalistico: confermare e citare le fonti per evitare equivoci e fraintendimenti. Si sa, la memoria umana è facilmente fallibile e di breve durata: a meno che Scalfari non sia un drone dalla memoria infallibile, gli sarebbe più utile servirsi di un registratore o di appunti, quantomeno per avere delle prove tangibili in caso di necessità. Dispiace che un noto giornalista, fondatore di uno dei quotidiani più letti e venduti in Italia, sia protagonista di una vicenda che si poteva benissimo evitare, ma soprattutto dispiace che un evento di grande portata, come il dialogo fra la massima autorità della Chiesa cattolica e un noto ateo convinto, sia stato sminuito e oscurato da polemiche, smentite e note ufficiali. 

Immagine presa da formiche.net

Una lancia in favore di Leo


Prima il tormentone era: meglio Maradona o Pelé? Oggi è: meglio Maradona, Pelé o... Messi? Il fantasista del Barcellona, vincitore di numerosi titoli fra campionati e coppe con i blaugrana, è ormai costantemente al centro dei dibattiti calcistici sui re del pallone. Leo oggi ha 27 anni e ha già vinto tutto da un pezzo: Liga, Champions League, Copa del Rey, Supercoppa di Spagna, Supercoppa Europea, Mondiale per Club, Scarpa d'Oro, Pallone d'Oro. E siccome vincere tutto già quando hai poco più di vent'anni ti porta sopra a tutto e tutti, la sfida non può essere che provare a rivincere quello che hai già vinto, battere record di gol, di presenze, diventare capitano della Nazionale argentina e competere costantemente con quel furbacchione di Cristiano Ronaldo, che non perde occasione per pizzicarsi col fuoriclasse argentino. Ecco, una cosa manca però a Leo: vincere con la Nazionale. In carriera, come detto, ha già vinto tutto, anche più di Maradona, eroe nazionale ancora venerato come una divinità. Il problema è che per consacrarsi definitivamente come una divinità al pari del Pibe, Leo deve portare la sua Nazionale sul tetto del Mondo. Solo questo gli permetterà di poter superare Maradona. La finale con la Germania era l'occasione di una vita, ma è andata male. Leo non ha brillato, o meglio, essendo ormai tutti abituati alle sue giocate e ai suoi dribbling, ciò che per un giocatore normale sarebbe straordinario, per lui ormai è ordinaria amministrazione: tutti si aspettano sempre di più. Ed ecco che una prestazione normale della Pulce diventa invece una prestazione pessima: ci sta, è il gioco del calcio e dei media che hanno bisogno di parlare dei grandi campioni. Ma allo stesso tempo non ci sta per niente: attaccare Messi, mettendo persino in dubbio il suo talento, è qualcosa di insensato. Sono attacchi gratuiti, che non rendono giustizia ad un giocatore che ha incantato il mondo dimostrando sul campo il suo valore. La Fifa ha consegnato a Messi il Pallone d'Oro del Mondiale, sollevando numerose critiche, dato la prestazione pessima (o normale, a seconda dei punti di vista) di Leo in finale. Sono critiche giuste e legittime, dato che il premio sarebbe potuto benissimo andare ad esempio a James Rodriguez, capocannoniere della competizione con sei gol, davanti a Mueller (5) e allo stesso Messi (4). Questo conferma forse come nel calcio, e soprattutto nella Fifa guidata ormai da troppo tempo da Blatter, ci siano dinamiche e pressioni politiche che devono soddisfare gli interessi particolari di qualcuno. In tal senso è curioso come la stessa Fifa abbia escluso l'argentino dalla top 11 dei Mondiali: ma scusate, non era stato il miglior giocatore ai Mondiali? Detto questo è giusto spezzare una lancia in favore di Messi: viene accusato di non essere stato decisivo in questo Mondiale e di non aver portato l'Argentina a vincere un titolo che manca dagli anni Settanta. Come se fosse solo colpa sua. Nessuno dice che è stata tutta l'Argentina a non brillare e non solo Messi: Higuain ha fatto un solo gol, anche se bello e decisivo contro il Belgio ai quarti, Palacio zero, così come Aguero e Lavezzi. Nessuno dice che Sabella ha lasciato a casa uno come Tevez, così come nessuno dice che se l'Argentina è arrivata dove è arrivata, lo deve proprio a Messi e a nessun altro: un gol alla Bosnia, due alle Nigeria e uno all'Iran, tutti decisivi, belli e fondamentali per la vittoria, senza contare che il gol allo scadere dei supplementari di Di Maria contro la Svizzera agli ottavi, nasce da una serpentina di Leo, che serve al compagno un assist al bacio. La colpa di Leo è stata quella di fermarsi lì, una volta arrivate le partite più importanti, e questo certamente non gli fa meritare fino in fondo il premio di miglior giocatore del torneo. Ma questo non gli può certo togliere il suo talento e il suo essere un campione in un calcio fatto più da modelli e calciatori-immagine che da uomini di sport.  

Immagine presa da www.lastampa.it 

mercoledì 16 luglio 2014

UN MONDIALE STRANO


Germania vs Argentina: 0 a 0. Come per gli altri turni eliminatori durante i Mondiali in Brasile anche la finale del torneo si decide ai supplementari. Il pareggio sembra essere l'esito della sfida, ma Goetze al 113' trafigge Romero regalando la Coppa del Mondo alla Germania, con tanto di esultanza della cancelliera Merkel in tribuna (e poi negli spogliatoi). Una Germania forte e straripante a tratti (chiedere al povero Brasile, spazzato via con un 7 a 1 eclatante), la quale ha dimostrato di essere superiore alle altre “grandi” del calcio. Una Germania che ci raggiunge a quota 4 Mondiali nell'albo d'oro, uno in meno del Brasile, il quale esce da questa competizione psicologicamente distrutto. Un Mondiale che doveva essere vinto dalla squadra di Scolari, dopo le innumerevoli proteste per le spese sostenute dal governo nell'organizzazione della competizione (proteste già cominciate l'anno scorso durante la Confederations Cup), sfociate in scioperi dei mezzi pubblici, tafferugli e boicottaggi: la vittoria non era solo una questione sportiva e di prestigio, ma anche e soprattutto una questione politica, sociale e purtroppo, di ordine pubblico (non a caso dopo la sconfitta in semifinale non sono mancati gli scontri). Un esito che purtroppo era prevedibile, data la qualità scarsa della rosa del Brasile, la quale, paradossalmente, spiccava di più nel reparto difensivo che in quello offensivo, grazie ai vari Julio Cesar, Thiago Silva, David Luiz, Marcelo, Maicon e Dani Alves. Eppure è bastata la squalifica di Thiago Silva per far crollare il reparto difensivo contro la Germania. Un Brasile scarso, il quale non è riuscito ancora a sostituire degnamente la generazione di grandi campioni che gli hanno permesso di vincere i Mondiali del 2002 in Corea e Giappone: Ronaldo, Rivaldo, Ronaldinho, Emerson, Roberto Carlos, Cafù, giusto per citarne alcuni, oggi sostituiti da Bernard, Fred, Jo e Hulk. Un Brasile aggrappato a Neymar, giocatore di grande talento ma forse considerato un fenomeno troppo presto, quasi fosse un dio, tanto da attaccare mediaticamente il colombiano Zuniga, colpevole, secondo i brasiliani, di aver deliberatamente abbattuto il giocatore del Barcellona: in realtà un semplice fallo, non cattivo, è stato ingigantito più del dovuto, quando a parti inverse, niente di tutto ciò sarebbe accaduto. È stato un Mondiale strano, che probabilmente non ha entusiasmato molto: è forse il segno che il calcio sta diventando sempre meno uno sport e sempre più una questione di soldi, marketing e pubblicità; insomma, sempre meno gioco e sempre più apparenza e fronzoli. Abbiamo visto per la prima volta lo spry col quale l'arbitro segnava la posizione del punto di battuta delle punizioni e il limite delle barriere, snaturando forse quello che è il bello del calcio: astuzia, strategia e un po' di malizia. Abbiamo visto per la prima volta la moviola in campo, in occasione del secondo gol della Francia contro l'Honduras, dove le immagini hanno confermato che la palla aveva oltrepassato la linea, con tanto di proiezione sui maxischermi dello stadio: in questo caso un fatto positivo, dopo la clamorosa svista in occasione della sfida Inghilterra vs Germania ai Mondiali del 2010, quando la terna arbitrale si perse clamorosamente un evidente gol di Lampard. É stato un Mondiale strano e sorprendente, con le clamorose e inaspettate qualificazioni agli ottavi di Costa Rica e Grecia, con le entusiasmanti prestazioni di Messico, Colombia e Cile, ma soprattutto con le deludenti eliminazioni di Italia, Spagna e Inghilterra. Ovviamente non si può non ricordare che uno degli eventi più sorprendenti è stato sicuramente il morso di Suarez a Chiellini, il quale gli è costato una bella squalifica data la sua recidività (ah, sorge spontaneo chiedersi: perché nessuna moviola in campo in questo caso?). Ma è stato anche un Mondiale con delle note positive, come il record di gol totali nella competizione del tedesco Klose (16, contro i 15 del Fenomeno Ronaldo), l'esplosione del talentuoso James Rodriguez, fantasista colombiano del Monaco, e la sorpresa Belgio, Nazionale piena di giovani talenti. Insomma, è stato un Mondiale nel quale è successo di tutto e di più, ma nel quale pochi si sono divertiti per davvero, a parte i tedeschi che oltre a dettar legge economicamente e politicamente, ora la dettano pure calcisticamente, grazie ad un campionato nazionale fatto di squadre sane nei conti, con stadi di proprietà sempre pieni e impianti all'avanguardia. La Germania, a differenza dell'Italia, è l'esempio di un Paese che ha saputo investire nel calcio. E intanto la Merkel balla, canta ed esulta coi giocatori, mentre il resto del mondo torna a casa a testa bassa.  


mercoledì 25 giugno 2014

Una eliminazione meritata

Sudafrica 2010 e Brasile 2014: Italia eliminata dalla competizione alla fase a gironi. Due eliminazioni clamorose: non accadeva dagli anni Sessanta di venire eliminati per due volte di fila al primo turno. Nel '62 la spedizione in Cile non riuscì a superare il girone che prevedeva come avversari i padroni di casa, la Svizzera e la Germania Ovest, mentre nel '66 fummo eliminati nel raggruppamento che prevedeva Corea del Nord, URSS e ancora una volta Cile. In quest'ultima occasione le modalità della disfatta rispecchiano la recente eliminazione subita ad opera dell'Uruguay di Tabarez: esordimmo battendo i cileni, per poi perdere con sovietici e nordcoreani. Il Mondiale inglese del '66 è quindi in qualche modo lo specchio del brutto Mondiale in Brasile, dove la vittoria contro l'Inghilterra nella prima partita ha illuso squadra e allenatore, incapaci di vincere contro il Costa Rica e almeno di pareggiare contro l'Uruguay. Una eliminazione che si somma alla brutta figura fatta in Sudafrica, quando il rientrato ct Campione del Mondo, Marcello Lippi, non riuscì a portare i suoi agli ottavi di finale. In quell'occasione l'ex allenatore di Juventus e Inter si dimise: dimissioni che sono state presentate anche dal ct Prandelli, il quale le ha definite "irrevocabili". Anche Abete, presidente della FIGC, ha presentato dimissioni "irrevocabili", in una conferenza stampa congiunta con l'ormai ex ct della Nazionale. Dimissioni dovute e inevitabili, in tutti e due i casi, e che sono espressione del "fallimento del progetto tecnico", come lo ha definito Prandelli. Un fallimento che rispecchia più in generale quello del calcio italiano, che va dalla decadenza degli stadi e degli impianti sportivi alla scarsa etica sportiva (vedi Calciopoli e scandalo scommesse), senza dimenticare l'elevato numero di giocatori stranieri nel nostro campionato a discapito dei giovani giocatori italiani che diventano la fortuna e il patrimonio delle squadre straniere. Un calcio in crisi che si traduce in società indebitate e quindi non sane e solide economicamente, ma soprattutto incapaci di competere a livello europeo e internazionale, come dimostra il crollo nel ranking Fifa e la progressiva perdita di posti nelle competizioni europee. Come sempre è facile dare la colpa all'allenatore e chiedere la sua testa: ammettiamo però che in questo caso non può che essere così. Prandelli ha raccolto le ceneri di una Nazionale ormai distrutta, dopo la disfatta dei Mondiali in Sudafrica, con l'obiettivo di riscattarla e riuscendo pian piano a ricostruirla dandole un'identità e delle regole: agli Europei del 2012 l'Italia è arrivata in finale, battendo squadre del calibro dell'Inghilterra e della Germania, dimostrando perlomeno una solidità difensiva e organizzativa; alla Confederations Cup del 2013 è arrivata terza, battendo ai rigori proprio l'Uruguay. Due risultati positivi, anche se erano evidenti alcuni limiti e alcune imperfezioni sui quali però era giusto lavorare nel tempo. Cosa che però non ha portato dei risultati ma una clamorosa disfatta. Il fallimento di Prandelli è quantomeno sorprendente e inspiegabile: la sua dedizione al lavoro e la sua precisione, che tanto bene gli hanno fatto fare nelle squadre di club, erano le qualità giuste per un allenatore in grado di portare dei risultati alla Nazionale. Invece questo Mondiale è nato male, fin dalle convocazioni: il ct non si è dimostrato chiaro nelle scelte, prolungando il mistero sui possibili convocati, ma soprattutto non è mai stato chiaro il modulo e gli uomini sui quali puntare. Sono stati convocati molti attaccanti esterni, come Cassano, Cerci e Insigne e due attaccanti centrali, Immobile e Balotelli. Con un attacco simile sarebbe stato logico giocare con una prima punta e due attaccanti esterni in grado di sfruttare le fasce e l'uno contro uno. Invece niente di tutto questo è stato fatto: il modulo usato da Prandelli, il 4-1-4-1, ha semplicemente imbottito la squadra di centrocampisti, finendo per lasciare solo Balotelli davanti. Altre scelte inspiegabili sono la scelta di Chiellini terzino e Marchisio esterno sinistro nelle prime due partite, ma a questo punto è inutile girare troppo il coltello nella piaga. Prandelli ha fatto delle scelte,  in buona fede e con un progetto tecnico preciso, che purtroppo non ha pagato. Ma ovviamente non è solo colpa dell'allenatore: probabilmente manca un profondo senso di responsabilità e di maturità in molti giocatori, in primis Balotelli, incapace, nonostante il suo talento e la fiducia in lui riposta, di prendersi sulle spalle le squadre in cui gioca. Manca una generazione di giocatori di spessore e non solo di talento, in grado di sostituire gradualmente la generazione dei Campioni del Mondo facendo fare un salto di qualità, come sta accadendo all'Olanda e alla Germania. Si potrebbero fare mille altre analisi tecniche sul calcio italiano, del quale questa Nazionale è l'emblema, ma dobbiamo ammettere una cosa: siamo noi italiani ad essere così, troppo spesso inconcludenti e bravi a parlare.  Una sola cosa è certa: questa è una eliminazione meritata. Evidentemente ci piace così, nel calcio come nella vita. 

mercoledì 18 giugno 2014

Esiste ancora la presunzione di innocenza sancita dalla Costituzione?

Gli ultimi giorni hanno visto la cronaca nera riempire le pagine dei giornali e gli spazi televisivi: prima il terribile triplice omicidio di Motta Visconti, dove il trentunenne Carlo Lissi ha ucciso la sua famiglia (moglie e due figli piccoli); poi l'annuncio (da anni atteso) dell'assassino di Yara Gambirasio, la tredicenne di Brembate trovata morta il 26 febbraio 2011 in un campo del bergamasco, individuato nella persona di Massimo Giuseppe Bossetti, un muratore della zona. Due fatti che hanno sconvolto l'opinione pubblica italiana per la crudezza degli eventi: un uomo che stermina la famiglia perché la considera un <<ostacolo>> all'amore provato per una collega e un altro uomo che è accusato di aver seviziato e ucciso una adolescente dell'età dei propri figli. Quello che accomuna le due vicende, oltre alla follia omicida e alla violenza estrema, è il fatto che gli omicidi siano stati commessi da due padri di famiglia: su questo aspetto si potrebbe aprire un lungo dibattito sulla crisi della famiglia e del matrimonio nella nostra società, come un altro dibattito inerente sarebbe quello della follia che abita nell'uomo, capace di uccidere senza se e senza ma persone innocenti e indifese come i bambini, anche i propri. Ma non è questo il luogo adatto. Quello che lascia perplessi è la freddezza e il cinismo con il quale vengono trattate le due vicende dal sistema mediatico in maniera strumentale e inappropriata. Sulle homepage dei siti online dei quotidiani si sono moltiplicate in maniera smisurata le foto riguardanti la vita delle persone coinvolte: "poco male", penserete, per descrivere una vicenda è necessario dare il maggior numero di informazioni possibile. Vero, anche le fotografie sono un aspetto rilevante della cronaca giornalistica, informazioni in grado di descrivere più di interminabili articoli e riflessioni piene di congetture. Quello che non va bene è la strumentalizzazione di queste immagini, giocare cioè sull'emotività del lettore scatenando odio e risentimento verso i protagonisti "negativi" della vicenda, come se non bastassero già i fatti per condannarli. Mettere a ripetizione la foto del matrimonio fra l'assassino Lissi e la moglie è un modo un po' crudo di giocare sulla tragica fine della loro relazione, andando un po' oltre la legittima narrazione oggettiva dei fatti. Come strumentale è la serie di gallerie fotografiche dedicate a Bossetti, presunto assassino di Yara: foto prese dal suo profilo Facebook nelle quali viene ritratto in diversi aspetti quotidiani della sua vita privata, con l'obiettivo di tracciare un profilo psicologico dell'assassino, come se non ci fossero già degli esperti che queste cose le fanno di professione. Tema che è ben spiegato e approfondito in un articolo comparso nella giornata di ieri su Wired. La vicenda di Brembate rispetto a quella di Motta Visconti si differenzia però in un aspetto fondamentale: nel primo caso Bossetti è, per ora, solo accusato di essere l'assassino (anche se il Dna e le prove a suo carico lasciano poche altre possibilità), mentre nel secondo caso l'assassino ha confessato. "Fermato il presunto assassino di Yara", hanno titolato alcune testate giornalistiche. "Presunto", appunto. Autorità, istituzioni e media però ne hanno da subito parlato come fosse certo, creando una sostanziale confusione sulle posizioni formali ed ufficiali di chi di dovere: Alfano, Ministro dell'Interno, non ha esitato ad annunciare, anche via Twitter, l'esito delle lunghe indagini e il nome del (presunto) assassino, definendolo sostanzialmente come sicuro, salvo creare successivamente imbarazzo in Procura, dove si aspettavano maggior riserbo sulla vicenda, "anche a tutela dell'indagato", che ricordiamo essere ancora solo accusato e non condannato. Alfano ha cercato poi di rimediare alla gaffe con un tweet nel quale ricorda la presunzione di innocenza sancita dalla Costituzione, ma ormai inevitabilmente la frittata era fatta: la smania di fare una bella figura ha portato a farne una cattiva. Ormai purtroppo si sa, ciò che fa notizia sembra non rispondere più alle regole del buon senso e della giusta cronaca: lo scoop viene prima di tutto, poco importa se uno è accusato di un crimine o ne è invece ritenuto responsabile tramite un regolare processo e una condanna. Ciò che importa è che bisogna soddisfare la necessità di trovare un colpevole, scatenando una gogna mediatica che rischia però di trasformare in negativo la realtà, eliminando la differenza fra accusa e condanna. A scanso di equivoci è giusto sottolineare come l'accusa a Bossetti sia fortemente fondata, dopo lunghe e approfondite indagini rafforzate dai risultati del Dna, che si avvicinano alla quasi totale certezza. Il problema è il principio sbagliato: oggi è capitato ad un uomo quasi sicuramente responsabile, domani potrà capitare ad un semplice sospettato, magari poi innocente, la cui reputazione sarà comunque infangata e cancellata. 

lunedì 16 giugno 2014

Azzurri, attenti ai facili entusiasmi!

Pronti, via. Dopo le tante critiche ricevute dalla Nazionale di Prandelli per i due scarsi risultati nelle amichevoli pre-Mondiale (0 a 0 con l'Eire e 1 a 1 con il Lussemburgo), gli azzurri battezzano la competizione brasiliana con una bella vittoria per due reti ad una contro l'Inghilterra dell'ex tecnico interista Roy Hogdson. Una vittoria che dà fiducia ai nostri ragazzi e mette in discesa la strada verso la qualificazione agli ottavi, data la sconfitta inattesa dell'Uruguay contro il sorprendente Costa Rica. Proprio il Costa Rica sarà il nostro prossimo avversario e una vittoria contro la Nazionale dell'America Centrale ci permetterebbe la matematica qualificazione e buone probabilità di arrivare primi nel girone. Vittoria che forse in molti danno già per scontata, data la bella prestazione contro gli inglesi, dimenticando che i costaricani hanno battuto nettamente per 3 a 1 l'Uruguay di Cavani e dell'infortunato Suarez, arrivato quarto agli ultimi Mondiali in Sudafrica nel 2010 e vincitore della Coppa America nel 2011. Facile pensare che sia stato un caso, una delle tante sorprese che il calcio regala a chi lo segue. Ma attenzione: anche noi, italiani esperti di calcio, siamo abituati alle sorprese, in positivo come in negativo. È vero che abbiamo vinto i Mondiali del 2006 contro ogni aspettativa, dopo lo scandalo Calciopoli, ma è anche vero che siamo riusciti a confezionare una magra figura agli ultimi Mondiali in Sudafrica, nei quali non abbiamo ottenuto nemmeno una vittoria nel girone contro Paraguay, Nuova Zelanda e Slovacchia. Due pareggi e una sconfitta che ci hanno rispediti in madre patria con tanto di sbeffeggio internazionale: un girone che dovevamo stravincere nel quale non siamo riusciti nemmeno ad arrivare secondi. Adesso il pericolo è proprio questo: rilassarsi dando per scontata la qualificazione dopo aver ottenuto i primi tre punti contro la squadra più ostica del girone. La stampa italiana celebra la prestazione tattica e cinica dei nostri, il gol di Balotelli e la bella prestazione di Candreva, la geometria di Pirlo e l'intesa con Verratti: tutto vero, tutto giusto. Ma è giusto anche guardare agli errori commessi e tenere alta l'attenzione: dopo il vantaggio ci siamo subito rilassati e fatti raggiungere dopo due minuti (colossale dormita di difesa e centrocampo nell'azione del pari inglese), ma soprattutto, diciamocelo, abbiamo vinto con intelligenza una partita difficile che poteva finire in qualsiasi modo. Non abbiamo dominato, non abbiamo schiacciato gli inglesi nella loro metà campo sommergendoli di tiri in porta. Insomma, non abbiamo vinto 5 a 1 contro la Spagna campione del Mondo e due volte campione d'Europa. Non è mai stato nelle nostre corde giocare in questo modo aggressivo, è vero. Tattica, attenzione, catenaccio e contropiede sono le nostre armi migliori (vedi Mondiali 2006). Ma proprio per questo bisogna essere prudenti e realisti: se la partita fosse finita in pareggio non ci sarebbe stato nulla da dire. Va bene l'entusiasmo di stampa e tifosi per la vittoria, necessario forse anche per scaricare un po' la tensione delle aspettative, ma teniamo i piedi per terra. Ricordiamoci che ogni volta che la Nazionale italiana è stata osannata e data per favorita, ha deluso le aspettative. A fari spenti invece, possiamo andare molto lontano.

#ForzaAzzurri!  



venerdì 18 aprile 2014

#graziegazebo

Così, senza neanche accorgercene, anche la seconda stagione di Gazebo è volata via. E ora? Cosa faremo al martedì, mercoledì e giovedì sera? Chi ci racconterà l'attualità e la politica dal dietro le quinte, con ironia e semplicità? Un altro Gazebo, un mix esplosivo di buona musica, giornalismo, creatività e simpatia non c'è, quindi per un po' di tempo dovremo accontentarci dei soliti ("noiosi") talk show politici e telegiornali. Dovremo fare a meno delle social top ten, dello #spiegonedamilano, della trepidante attesa di Mirco sotto Palazzo Chigi, delle strombettate di Giovanni e delle foto di Diego prima dell'inizio della puntata. Magari, quando ci verrà nostalgia, ci guarderemo su YouTube qualche capolavoro del genio Makkox, o metteremo a palla in macchina Pace Interiore! di Roberto. La politica continuerà ad essere quel noioso e scuro teatrino di giochi di palazzo, battute e controbattute, scandali e incoerenze, promesse e aspettative: la leggeremo sui giornali, la ascolteremo alla radio e la guarderemo alla tv. Quello che ci mancherà sarà viverla attraverso Gazebo. Ma l'attesa sarà breve: Gazebo va solo in vacanza, anche se siamo sicuri che Zoro&Co. continueranno a lavorare per noi, il suo amato pubblico. Intanto ripassiamoci gli appunti di hackeraggio del prof Salerno e proviamo a mettere in pratica i tutorial di Makkox, in attesa delle nuove inchieste di Zoro. Aspetteremo (im)pazienti la terza stagione. Per ora ci limitiamo a dire: #graziegazebo



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