martedì 25 novembre 2014

BINARIO 2 OVEST

Sala d’attesa della stazione di Bologna. Una ragazza, seduta una fila davanti a te, beve da una bottiglietta d’acqua. Un signore, anche lui seduto di fronte a te, non fa niente se non guardare in giro e pensare, qualche volta appoggiando la testa sulla mano e il gomito sulla gamba. Un’altra ragazza, seduta con le gambe incrociate sulla tua sinistra, studia, mentre il signore seduto di fianco a lei scorre il dito sul suo smartphone. Due donne, sedute alla tua destra, parlano in arabo, mentre la coppia dietro di te parla in inglese, lodando Bologna e il suo centro pieno di gente. Un treno sfreccia al binario 1, spostando una quantità d’aria e di rumore sufficienti a catturare l’attenzione dei presenti: per un attimo basta conversazioni, basta studio, basta pensieri. L’attenzione di tutti è catturata da un treno in movimento. Pochi secondi e torna la quiete, e con essa l’attesa delle persone.

Cammini per le vie della stazione e i suoi binari, con la tracolla che sbatte sulla tua gamba destra e la valigia nera piena di vestiti appallottolati per la fretta. Cammini e pensi che hai sempre amato le stazioni ferroviarie. Hai sempre amato quel via vai di persone di tutti i tipi: uomini, donne, bambini, biondi, mori, rossi, alti, bassi, italiani, stranieri, europei, asiatici, sudamericani, africani. Persone di fretta, calme, da sole, accompagnate. Altre cariche di valigie, borse, borsoni, trolley, altre semplicemente libere da ogni tipo di peso. Hai sempre amato le stazioni dei treni perché ti hanno sempre dato la possibilità di osservare: la razza, il sesso, le abitudini, i comportamenti, i sentimenti. Hai sempre osservato, appuntato nella tua mente ciò che ti colpiva, ciò che ti cambiava, anche solo per un attimo, la giornata. Hai osservato le persone mentre leggevano, mentre dormivano, mentre ascoltavano la musica o leggevano qualcosa sullo smartphone, mentre parlavano al cellulare o con un compagno di viaggio. A volte semplicemente mentre guardavano fuori dal finestrino. Hai immaginato le loro mete, i loro orari, i loro modi di viaggiare, osservando i bagagli, l’abbigliamento, se viaggiavano da sole o accompagnate. Hai visto le persone alle prese con il tempo, mentre guardavano l’orario sul loro orologio o sul telefono, oppure al tabellone degli arrivi e delle partenze alla stazione nelle sale d’attesa, ai binari o nei sottopassaggi. Hai visto le persone correre per prendere una coincidenza, oppure rilassarsi al bar con un caffè o un gelato oppure sedute ad un angolo a pranzare con un panino comprato o fatto al volo a casa. Hai visto le persone scendere da un treno mentre qualcuno le aspettava, ne hai viste altre invece salire per andare a trovare qualcuno, magari per fare una sorpresa. Hai visto universitari studiare in posizioni scomode sui sedili o seduti sulle valigie e pendolari con la loro ventiquattrore di pelle appoggiata sulle gambe. Hai visto persone che stavano affrontando un lungo viaggio e altre semplicemente tornare a casa dalla loro famiglia. Hai sempre amato le stazioni, perché le hai sempre trovate la metafora perfetta della vita. Già, perché nella vita si sta come su un treno: c’è chi sale e c’è chi scende, chi sta seduto comodamente e chi invece sta in piedi alla ricerca quasi disperata di un posto a sedere, c’è chi viaggia leggero e chi invece viaggia pesante, carico di problemi, domande e pensieri. C’è anche chi soffoca in un wc maleodorante perché è l’unico posto che ha trovato e ogni tanto, nella vita, un po’ di merda la devi pur sopportare. Infine c’è anche chi dal treno viene proprio travolto, perché la merda è diventata troppa e insopportabile. 



Pensi a tutto questo mentre ti siedi su una panchina della stazione di Bologna con il tuo computer appoggiato sulle gambe. Osservi la stazione dal binario 2 ovest, mentre pendolari e studenti invadono ogni spazio. Osservi e scrivi, scrivi e pensi, pensi e ricordi, ricordi e immagini cosa ancora potrai vedere.

lunedì 17 novembre 2014

BLACK MIRROR: LA DERIVA DELLA TECNOLOGIA IN UNA SERIE TELEVISIVA

Solo un decennio fa poter fare chiamate, mandare messaggi e fare registrazioni audio era una vera e propria novità in grado di cambiare gli stili di vita: con il telefono cellulare (il primo fu inventato da Martin Cooper, direttore della sezione Ricerca e sviluppo della Motorola nel 1973 ed era grande quanto una valigetta... diciamo un telefono portabile ma scomodo) era possibile scambiarsi velocemente messaggi, i famosi SMS e chiamare una persona senza dover entrare in una cabina telefonica. I primi avevano lo schermo in bianco e nero, poi arrivarono i modelli a colori, poi quelli con cui potevi fare i video e le foto, infine oggi gli smartphone, dei veri e propri mini computer con i quali si può fare tutto. Forse anche troppo. In un decennio il mercato della tecnologia si è concentrato tutto sullo smartphone, il telefono intelligente. Fotocamere, videocamere, computer, agende, registratori vocali: tutto concentrato in un semplice telefono dove fare una telefonata non è più la funzione principale. Addirittura grazie a questo semplice apparecchio rettangolare si possono fare collegamenti live, reportage, documentari, film e quant'altro: basti vedere le tecniche del giornalismo moderno e il citizen journalism. Smartphone, tablet, televisioni digitali, schermi in 3D: la tecnologia non si ferma, corre veloce. Dieci anni fa chiamare da un cellulare era una rivoluzione comunicativa e certamente nessuno avrebbe pensato allo smartphone. La domanda è: fra dieci anni cosa ci sarà? Come comunicheremo? Oggi si parla di una società super connessa, digitale, multimediale, nella quale si sta perdendo il contatto fisico con le persone, nella quale la natura mediale supera quella umana e relazionale. Siamo nell'era di Skype, di Oovoo, dei social network, di WhatsApp: proprio quest'ultima app, con le due spunte blu che permettono di verificare se il destinatario ha letto o meno il messaggio, sta sempre più regolando i rapporti delle persone (non a caso Facebook ci ha speso un bel po' di soldi per comprarsela). 
Immagine tratta da blogosfere.it

E fra dieci anni? Già, fra dieci anni, cosa ci sarà invece? Charlie Brooker ha ideato una serie televisiva, Black Mirror, giunta alla seconda stagione: ognuna contiene tre episodi, le cui trame sono scollegate e indipendenti, nei quali si cerca di immaginare quella che può essere la deriva di una società nella quale la tecnologia cresce a dismisura diventando il pilastro centrale della vita dell'uomo. Cip della memoria, schermi sui quali guardare i propri ricordi, avatar, esperienze virtuali: questo potrà essere realmente il futuro, una realtà virtuale fatta di Google glass all'ennesima potenza. L'uomo e la tecnologia, un rapporto che ha sempre avuto nel progresso scientifico il suo pilastro, tutto per migliorare la vita dell'uomo. Oppure per peggiorarla... 

lunedì 10 novembre 2014

C'ERA UNA VOLTA IL CALCIO

È domenica. Ti siedi sul divano comodo, in una giornata di pioggia battente che chiude una settimana di ombrelli e impermeabili. Accendi la tv, ti sintonizzi su Sky, pronto a goderti un pomeriggio di Diretta Gol. Il Milan ha giocato nell'anticipo con la Samp, così come il Sassuolo con l'Atalanta. L'Inter gioca nel posticipo con il Verona, così come la Roma con il Torino, poco dopo la sfida fra Fiorentina e Napoli. Il pomeriggio ti regala solo cinque partite, anzi quattro... Genoa e Cagliari hanno giocato a mezzogiorno e mezzo. Merito dei diritti televisivi e del calcio spezzatino. Iniziano le partite e vedi la Juve in maglia blu. "Ma aspetta un attimo, gioca in casa... perché la maglia blu?", ti chiedi. Quando ti rendi conto che il Parma, la squadra ospite, gioca con una maglia verde fosforescente: "E questa da dove l'hanno tirata fuori? Boh!". Poco male, Diretta Gol passa alla partita di Empoli e vedi la squadra avversaria con la maglia granata: "Ma il Torino non giocava stasera con la Roma? Ah, aspetta... è la Lazio". La Lazio con la maglia granata non te la ricordi, fai uno sforzo di memoria ma... proprio non te la ricordi. Intanto pensi all'Inter che gioca la sera... vince, non vince.. boh, di questi tempi è un mistero anche quello, ma mai quanto la scelta della prima maglia quasi tutta nera a strisce blu sottilissime, quasi invisibili. Per non parlare della terza maglia, blu acceso, roba da farti venire il mal di testa. Poi vabbé, sembra roba figa questa delle maglie strane... le usano pure per le partite europee! L'Inter sempre in blu fluo, la Juve addirittura in verde acceso contro l'Atletico. Per non parlare del fatto che qualche anno fa l'Inter aveva la maglia rossa e la Juve rosa. L'unica squadra che sembra avere una terza maglia decente è la Roma, che si veste di nero. Una maglia sobria, se confrontata alle altre diciamo... originali. Poi oh, potrebbe andare anche peggio, a Napoli giocano con una maglia stile jeans... per non parlare dell'anno scorso che avevano la maglia mimetica come i militari!
Immagine di Sky Sport

No, purtroppo non è pazzia. Le squadre di calcio, oggi, giocano davvero con delle divise che sembrano dei pigiami. Merito del marketing, della moda (?) ormai sbarcata anche nello sport. Ci eravamo appena abituati alle scarpe di colori assurdi. Gialle, arancioni, rosse, blu, verdi, addirittura la scarpa destra di un colore e quella sinistra di un altro. Adesso tocca alle maglie. Una volta erano larghe, con i numeri e i nomi enormi, quasi appena stampati. No, oggi no. Oggi i giocatori entrano in campo quasi come se dovessero fare una sfilata. Pettinati, palestrati, infighettati nelle loro maglie cool e nelle loro scarpe estrose. Eppure qualche anno fa entravano vestiti solo di grinta e voglia di giocare a calcio. No, purtroppo non è pazzia. È realtà. E la realtà è che oggi il calcio non è più uno sport ma un business, dove conta più l'immagine, la società sportiva intesa più come brand commerciale che come squadra, il giocatore come immagine di copertina che come sportivo. Il tutto sotto l'egemonia degli sponsor, che tengono in scacco calciatori e società attraverso contratti milionari, ai quali non si può rinunciare. Sponsor che controllano le partite, sempre più eventi mediatici e pubblicitari che incontri sportivi, che controllano i calciatori, sempre più testimonial di pubblicità, che controllano le società stesse, mutandone, pian piano, l'identità e la storia, semplicemente cambiandone i colori delle maglie. Prima c'era il nerazzurro, il rossonero, il bianconero, il giallorosso, il granata, il biancoceleste: oggi c'è il rosso, il rosa, il nero patinato, il verde, il giallo e il blu fluo. Colori sgargianti, per alcuni entusiasmanti, in un calcio che di entusiasmante ha sempre di meno.