martedì 14 novembre 2017

L'Italia chiamò. Nessuno (o quasi) rispose.

Trovare le parole il giorno dopo un'eliminazione dai play-off di qualificazione ai Mondiali di calcio non è per niente facile. Forse perché la realtà è che non ci sono parole giuste da pronunciare, né tantomeno riflessioni da snocciolare: quelle saranno da fare a freddo, una volta cominciata a digerire la nuda e cruda realtà. Già, perché dopo sessant'anni l'Italia non parteciperà ai Mondiali di calcio. 




Poco male, direte: sono tutti sfaticati strapagati a cui non importa niente. E chissà, magari è anche vero. Ma questa sarà una di quelle riflessioni da fare domani o dopodomani o fra una settimana, insieme a quella sullo stato di salute del calcio italiano, dai settori giovanili sempre meno valorizzati agli stadi ancora troppo fatiscenti e inadeguati, passando per società sempre meno italiane. 

Ma oggi, il giorno dopo, dobbiamo solo pensare a cominciare a prendere atto di quello che è successo ieri sera. Partendo dal non nascondere che il non qualificarsi ai Mondiali è un vero e proprio dramma sportivo. Sì, perché quando a giugno cominceranno le partite, noi tifosi italiani non ne vorremo sapere. Anche solo parlare di calcio ci farà venire la nausea, la nostalgia, l'invidia, la rabbia. 

Niente corse al supermercato a fare scorte di birre ghiacciate, niente tricolori esposti su balconi e finestre, niente facce pitturate di verde bianco e rosso, niente Inno cantato a squarciagola né chiacchiere da bar sulla formazione e i pronostici sulle partite del girone. Niente speranze di arrivare in fondo, gara dopo gara, gol dopo gol, sogno dopo sogno. 

Niente di tutto questo, che è svanito ieri sera al triplice fischio di una partita dopo la quale San Siro si è dipinto di un giallo che non avremmo mai voluto si accendesse. Il nostro orgoglio italiano viene ancora una volta ferito da quella Svezia che ci ha fatto assaggiare l'amaro gusto del biscotto con la Danimarca nel 2004, infliggendoci un'altra umiliazione dura da digerire.

La frenesia dell'attesa di un sogno da realizzare questa volta non ci verrà protagonisti, ma spettatori. "Gli italiani perdono partite di calcio come se fossero guerre e perdono guerre come se fossero partite di calcio", disse una volta Winston Churchill. Ed è vero, siamo fatti così. Il calcio è forse l'unico pretesto che ci unisce davvero sotto i colori di una bandiera, l'unico momento in cui sappiamo raccoglierci nel nostro essere italiani condividendo un obiettivo comune. La Nazionale è forse una delle poche cose che ci fa dimenticare le nostre divisioni interne e ci fa sentire una cosa sola. 

La delusione del giorno dopo è forse anche la consapevolezza che tutto questo ci mancherà ancor più della speranza di alzare una coppa salendo sul tetto del mondo. È la delusione di rendersi conto che per noi italiani la Nazionale serve a rispolverare quell'unità che spesso ci dimentichiamo. 

L'Italia chiamò, ma nessuno rispose. O quasi. Sì, perché se c'è chi non ha saputo essere all'altezza, Gianluigi Buffon rappresenta invece quell'unica nota positiva in un concerto stonato di un'orchestra allo sbando. Vent'anni con la maglia azzurra non meritavano di concludersi con una serata così amara, ma il ringraziamento umano e sincero del popolo italiano è sicuramente più forte di qualsiasi sconfitta sportiva. 



Un popolo che da questa caduta ha il dovere e la responsabilità di trovare la forza e l'orgoglio di destarsi nuovamente. 









sabato 11 novembre 2017

In una mattinata di sole mi sono imbattutto nel signor Mario, alla ricerca di via Magolfa

Dopo una settimana di pioggia e nuvole, Milano decide di risvegliarsi col sole. Un sole tiepido che non scalda, ma sufficiente a far scorrere vita in città in un sabato mattina di inizio novembre. E allora ecco che decido di far parte di questo flusso di persone decise a godersi la città, prendo il tram 10 e vado. Mi immergo fra le vie di Milano senza decidere dove e quando scendere, lasciandomi trasportare. Il tram è forse il mezzo di trasporto più bello e rilassante che ci sia: non devi guidare, non sei sommerso dalla frenesia della metro, non sei sottoterra ma alla luce ma soprattutto i suoi passeggeri non hanno fretta. Mi siedo vicino all'uscita, mentre salgono e scendono papà e mamme con bambini, ragazzi africani carichi di stecche di sigarette da smerciare in giro, donne in missione shopping e vecchietti. Questi ultimi sono forse i più interessanti, una sorta di memoria storica di una città in continuo cambiamento e allo stesso tempo una grande fonte di energia nonostante tutta la loro fragilità. 

La Stazione Centrale, il cimitero Monumentale e via fino all'Arco della Pace, mentre le chiacchiere e le urla festose dei bambini a bordo si mischiano al rumore delle rotaie. Borse della spesa, passeggini e monopattini fanno da sfondo, fino a quando il tram non si ferma al capolinea di Piazza 24 Maggio, per una sosta prima di ripartire a ritroso. Scendo e decido di vagare per la Darsena e i Navigli, fra artisti di strada e turisti. È quasi mezzogiorno e non fa freddo, ma la punta del naso si gela comunque un po'. Quel freddo tollerabile che ti tiene sveglio e attivo, mentre un ragazzo suona e canta "Rebel Rebel" di David Bowie. 

"Scusi, mi sa dire dove si trova via Magolfa?"

Mi giro in direzione della provenienza della voce e mi ritrovo davanti un vecchietto, avvolto in un cappotto beige, una coppola marrone chiaro e lo sguardo filtrato da un paio di occhiali da vista con le lenti fotocromatiche. 

Rispondo che non lo so, ma mi offro di trovargliela su Google Maps. 

"Grazie, dovrebbe essere qui vicino al Naviglio. Milano non è più come ai miei tempi. Ormai sono vecchio"

Trovo il percorso e in realtà il simpatico vecchietto non era mica lontano dalla destinazione. Gli spiego la strada e mi ringrazia. Sta cercando un ristorante in cui andava spesso, quasi fosse spinto da una improvvisa nostalgia. Mi saluta e prende la sua direzione, mentre io prendo quella opposta. Penso a quanto fosse simpatico e a quanto assomigliasse al vecchietto di Up. 




Continuo il mio vagare in una zona Navigli stranamente tranquilla rispetto al fiume di gente che la frequenta alla sera. Fino a quando, più o meno un quarto d'ora dopo, incontro nuovamente il vecchietto. 

"Purtroppo il ristorante era chiuso. Peccato". 

Quella punta di malinconia si mischia a una contrastante positività d'animo, un mix raro che mi incuriosisce. Gli chiedo allora come si chiama. 

"Mi chiamo Mario" - risponde. 

Mi presento e gli chiedo se posso offrirgli un caffè o un bicchiere di vino. Mi sorride e gentilmente declina l'invito. 

"Continuo le mie passeggiate. Anche se la mia Milano è ormai cambiata. Ora che sono da poco vedovo poi... Sai, io sono del '27 mentre lei era del '29. Ora è tutto diverso". 

Mi dà una pacca sulla spalla e mi saluta, sempre con l'allegria del suo sorriso e la malinconia  dei suoi occhi, nascosti dagli occhiali. E per un momento penso che il signor Mario, forse, altro non potesse essere che il vecchietto di Up. 

Rimango qualche secondo a guardarlo mentre si allontana a passo lento. La curiosità mi spinge così ad andare in via Magolfa. Al mio arrivo, alla targa con il nome della via sul muro se ne aggiunge un'altra, che recita: "Via della Poesia". La percorro in tutta la sua bellezza e tranquillità. Cerco su Google il perché via Magolfa sia nota come la via della poesia e trovo questo articolo del Corriere, che racconta di come seguisse un'antica roggia della vecchia Milano e del campanile della chiesetta di Santa Maria del Sasso, dal quale si vedono ancora i tetti dove salivano gli uomini a pulire i camini. In fondo, la casa che ricorda Alda Merini, poetessa e aforista milanese ricordata anche grazie al caffè letterario dedicatole, in una cornice di graffiti sui muri che costeggiano la via con alcuni dei suoi aforismi. 

Un aforisma di Alda Merni. Sullo sfondo il campanile della "chiesetta degli spazzacamini"

Via Magolfa, la Via della Poesia

Un murales raffigurante Alda Merini (1931-2009)



In una mattinata di sole mi sono imbattuto nel signor Mario, alla ricerca di via Magolfa e probabilmente di quel ristorante in cui chissà quante volte avrà portato la sua amata moglie. Regalando a me una storia e un pezzo della vecchia Milano. 


giovedì 2 novembre 2017

LA PERSECUZIONE DEI ROHINGYA

"Centinaia di donne stanno in piedi nel fiume con i fucili puntati addosso e l'ordine di non muoversi. Un gruppo di soldati si avvicina a una ragazza minuta, Rajuma, con l'acqua fino alla vita e il suo neonato tra le braccia. 'Tu', le fanno i militari. Lei si blocca. Stringe il bambino ancora più forte. Nei minuti successivi, violenti e confusi, i soldati colpiscono Rajuma sul volto, le strappano il figlio dalle braccia e lo gettano tra le fiamme. Poi la portano in una casa e la stuprano". 

Rajuma è una rohingya e la sua storia è stata raccolta da Jeffrey Gettleman, giornalista del New York Times. Sta cercando di attraversare il fiume Naf per raggiungere uno dei campi profughi in Bangladesh. Fugge dalla Birmania, dove le violenze dell'esercito stanno portando avanti una vera e propria pulizia etnica nei confronti di una minoranza per niente riconosciuta nella Paese del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi.



Photo Credit: Kevin Frayer


Una minoranza che non vede riconosciuti diritti civili e politici, la cui discriminazione è anche di carattere religioso. I rohingya sono infatti musulmani che vivono nel Rakhine, apolidi considerati immigrati bangladesi e discriminati dalla maggioranza rakhine, di religione buddista. Una maggioranza che ha paura della diversità e che considera i rohingya una minaccia per la propria identità.

All'interno del numero 1228/anno 24 di Internazionale (27 ott-2 nov 2017) due articoli di Francis Wade sul The New York Review of Book e di Lee Jones sul New Mandala raccontano dei seicentomila rohingya scappati dalla Birmania verso il Bangladesh, dell'odio verso questa etnia e delle sue radici storiche e politiche. A partire dal colonialismo britannico fino a un'ostilità che oggi è sostenuta dalla maggioranza della popolazione, passando da una transizione democratica che non è pienamente riuscita. Nel 2010 infatti il potere è passato dalla giunta militare a un governo civile, oggi guidato da Aung San Suu Kyi, liberata dopo 26 anni di arresti domiciliari. Eppure proprio il premio Nobel per la pace sembra non essere particolarmente sensibile alla situazione dei rohingya, considerati dalla maggioranza della popolazione birmana "un'etnia cattiva".


Photo Credit: Kevin Frayer


Una situazione che ha visto il coinvolgimento degli Stati Uniti, che tramite il segretario di Stato Rex Tillerson lo scorso 24 ottobre ha parlato di "pulizia etnica", con sanzioni che potrebbero essere inflitte alla Birmania nel caso in cui la crisi umanitaria non dovesse rientrare. Cosa molto difficile, data la situazione di piena emergenza e un odio culturale che non può certo cancellare decenni di ostilità radicata. 

In questo articolo del The Guardian, il racconto fotografico della precarietà dei rohingya nei campi profughi e la drammaticità del loro esodo al confine con il Bangladesh tramite il fiume Naf. Reportage a opera di Kevin Frayer (@kevinfrayer), fotografo canadese autore di numerosi reportage in Asia e Medioriente.

http://www.kevinfrayer.com/ 


Photo Credit: Kevin Frayer