mercoledì 7 dicembre 2016

LA POLITICA È ANCHE SENTIMENTO. BASTA CHE A GUIDARLA SIA LA VERITÀ

Photo Credit: usoeriuso.it 

Da un po' di anni a questa parte ho avuto modo di vivere l'esperienza di scrutatore al mio seggio elettorale. Comunali, regionali, europee, politiche, referendum: ogni tipo di votazione ha meccanismi diversi, non solo politici ma anche e soprattutto sociali. Sì, perché in fin dei conti il voto è anche uno strumento sociale che ci permette di esprimere la nostra idea, condivisibile o meno che sia. È quello strumento che ci permette di dire sì o no a qualcosa - come nel referendum di domenica - oppure di determinare i rappresentanti politici del nostro Comune/Regione/Parlamento. 

E ogni volta, volenti o nolenti, si va a votare anche con i sentimenti, è inutile negarlo. Capita di scrutinare e trovare schede con insulti, battute o scarabocchi, che sono espressione di rabbia, disappunto, rassegnazione. Ma anche un voto espresso correttamente - e con correttamente intendo non nullo - può essere espressione di sentimenti positivi o negativi. 

Certo, il voto è meglio che sia espressione di una scelta razionale e ponderata, ma la componente emotiva è imprescindibile in politica. Simpatie e antipatie fanno parte del gioco e sono le stesse campagne elettorali a determinarle. Sono gli stessi attori politici a far leva sulla pancia - e oserei dire anche sul cuore - degli elettori tirandoli da una parte o dall'altra e la conseguenza delle loro decisioni dentro la cabina elettorale non può che essere - nella maggior parte dei casi, non in tutti - che un voto di pancia (o di cuore). 

È quello che è successo anche domenica con il referendum costituzionale. Osservando le molte persone venute a votare (affluenza molto alta, segno che il referendum era particolarmente sentito) posso dire che il tempo passato dentro alla cabina elettorale è stato in media di due secondi. Questo vuol dire che la maggior parte delle persone è venuta a votare già con le idee chiare, senza aver bisogno di stare troppo tempo a leggere e rileggere il quesito referendario. 



Questo potrebbe voler dire che la gente ha tendenzialmente votato sì o no di pancia/cuore in base ad antipatie/simpatie o che semplicemente si era già informata conoscendo bene il quesito e i contenuti del referendum (superamento del bicameralismo perfetto, abolizione del CNEL, abolizione delle Province, riduzione dei costi della politica). Ovvio che tutti ci auguriamo sia stato il secondo caso a prevalere ma è inevitabile domandarsi se questo referendum sia stato davvero un atto politico sul merito o un voto personale su Renzi, principale autore e promotore della riforma che inevitabilmente o volutamente ha personalizzato questo voto.

Determinare se il 40% del sì sia un completo apprezzamento sull'ex (?) Presidente del Consiglio e il 60% del no una sua completa bocciatura è ancora troppo presto per dirlo: i motivi che hanno portato ai due voti sono molti, diversi e intrecciati fra loro e saranno probabilmente le prossime elezioni, con il senno di poi, a permettere di comprendere il risultato di domenica.

Di sicuro una cosa si può dire: anche fra chi ha votato sì c'è chi ha espresso un voto politico di pancia/cuore. Se fra chi ha votato no può aver prevalso la paura di un cambiamento incerto o l'avversità verso il Governo, fra chi ha votato sì può aver prevalso la speranza di un cambiamento atteso o l'apprezzamento verso il Governo e il suo operato. Al di là del merito sul quesito.

Nei giorni precedenti il voto il dibattito si è incentrato sul non votare di pancia e sul Renzi/nonRenzi. Come se i sentimenti negativi fossero gli unici non giustificabili. Ma è la politica, signori: giocare sulla sfera emotiva per far coincidere la speranza e il sogno con la propria figura politica e la paura con quella dell'avversario. E in questo hanno giocato tutti e due gli schieramenti: quello del no con le bufale sul referendum e quello del sì con la smentita di tali bufale (a suon di altre bufale) e l'idealizzazione della riforma costituzionale come via maestra di un futuro migliore. 

È la logica degli spot elettorali, degli slogan, di chi dice meglio cosa (vero o non vero che sia). È la comunicazione politica. È la campagna elettorale. È raccontare storie, ideali, progetti. È storytelling

In un precedente post avevo consigliato alcune fonti per votare informati, che è la vera discriminante per un voto coerente. Se la parte emotiva di pancia e di cuore è naturale, la corretta informazione è la prova del nove affinché le proprie simpatie/antipatie siano coerenti con la realtà dei fatti. Senza farsi ingannare da bufale e sentito dire. Perché diciamocelo: la politica è anche sentimento e negarlo è solo un nascondersi dietro a un dito. L'importante è che sia la verità a guidare i sentimenti e non viceversa.




sabato 26 novembre 2016

"MI PAR TI", LA POESIA IN PORDENONESE DI MASSIMO BUSET




Oggi, presso l'ex Convento San Francesco - luogo nevralgico per le iniziative culturali di Pordenone - Massimo Buset presenterà "Mi par ti", una raccolta di poesie nella parlato pordenonese che raccontano aneddoti, storie e personaggi della città di Pordenone. Alle 18.00 interverranno il presidente della Propordenone Giuseppe Pedicini, il vicedirettore del Messaggero Veneto Giuseppe Ragogna e Aldo Colonnello del circolo culturale Menocchio, che rispettivamente hanno pubblicato il libro, intervisteranno Massimo Buset nel racconto del libro e introdurranno all'evento. 

Per chi ama la nostra città e vuole conoscerla un po' di più quello di oggi è un appuntamento a cui non mancare, come si può leggere in questa intervista rilasciata da Massimo al Messaggero Veneto, nella quale esprime il suo amore per Pordenone attraverso il ricordo. E poi perché la poesia di Massimo - per me un amico oltre che una persona della quale nutro grande ammirazione e stima per la sua forza d'animo e la sua fede in Dio - è in grado di regalare allo stesso tempo emozioni, speranza e conoscenza. 

Ho avuto il piacere di intervistare Massimo due volte, sempre per la rivista Eventi. Nella prima occasione - era l'estate di un anno fa - ricordo il suo racconto personale di un rapporto forte con la poesia, ma ancor prima con le parole e il loro significato, spesso denso di emozioni. Un incontro nel quale si parlò proprio di Pordenone e delle sue storie. Ecco che quindi ripropongo qui, con piacere, i contenuti di quell'intervista, anzi, di quella chiacchierata su Dio, la sofferenza, la speranza e la bellezza delle parole cariche di un significato positivo. 

Massimo, come nasce la tua passione per la poesia?

È qualcosa che ha sempre fatto parte di me fin da quando ero bambino. Un qualcosa che scaturiva da una sorta di dialogo interiore nel quale sentivo il bisogno di cogliere e di trasmettere un messaggio. Ricordo che un giorno alle medie la mia professoressa di italiano si accorse che stavo scrivendo durante la lezione: all’inizio si arrabbiò ma quando capì che stavo scrivendo poesie fu subito contenta. Da lì in poi ho capito davvero che il mio dialogo interiore poteva essere poesia e da quel momento ne ho scritte tante. 

Come definiresti la tua poesia?

La mia poesia nasce da un ambiente di tribolata speranza nella drammaturgia della vita di ogni giorno, dove il dramma della vita si riferisce non solo alle mie sofferenze ma anche a quelle delle persone più semplici e a volte “maledette” perché non corrispondono ai classici canoni di bontà, dalla prostituta al barbone fino al “fuori di testa” che spesso si dimostra invece più “dentro di testa” di noi. Di pari passo però è una poesia nella quale è forte un’esperienza di fede cristiana, trasmessami dalle persone che mi sono sempre state vicine e a tanti testimoni che ho incontrato: una fede che ha certamente i suoi momenti di crisi e le sue cadute, così come il suo progredire – anche nel silenzio - in un desiderio di conoscenza che è un po’ il filo rosso della mia esistenza. 

In cosa consiste questo “filo rosso”?

Penso che se c’è una falsa drammaturgia della vita c’è anche una vera drammaturgia della vita che va oltre quello che noi umanamente concepiamo e dove possiamo trovare delle risposte che vengono da Dio. Non siamo stati creati a caso, senza motivo o per un inganno. 

In questa drammaturgia della vita che ruolo ha la sofferenza?

Ritengo la sofferenza una grande maestra, nonostante con essa abbia un rapporto di apprezzamento e di rifiuto al tempo stesso, perché la sofferenza mi pesa e mi pesa ancor più quella degli altri. Ma nonostante ciò mi ha aiutato ad evolvere nel pensiero e a lottare per vincerla nella speranza. E proprio la speranza è il messaggio di positività che cerco di trasmettere attraverso la poesia, perché ti permette anche di comprendere gli altri e di allargare la mente. È una scelta: la sofferenza può incatenarti portandoti alla disperazione oppure può spingerti a spalancarti aprendoti alla speranza attraverso la fede, che ne è la chiave. 

Cos’è per te la fede?

La fede nasce da un dialogo nel quale dire: “Ok, proviamoci, ci credo!”. Come ho detto prima ho avuto la fortuna di avere accanto a me tanti testimoni, a partire dalle persone più semplici, a volte anche sconosciute. Come ad esempio un barbone, che ogni tanto compariva nei luoghi più disparati per chiedermi come stavo. Ho ricevuto molto da don Angelo, dai missionari comboniani e da mons. Lozer. Durante l’adolescenza ho affinato la mia fede anche attraverso una giusta contestazione e una giusta coscienza critica nei confronti della Chiesa: non del suo senso e della sua missione ma delle sue strutture. 

Com’è nata la decisione di diventare diacono? 

La vocazione al diaconato è arrivata durante la lavanda dei piedi di un giovedì santo. Don Angelo mi battè una mano sulle ginocchia e mi disse: “Tu diventerai diacono”. Ricordo che alla fine della messa dissi a mia moglie Sofia: “don Angelo è diventato matto, ne ha sparata una delle sue!”. Io non ci pensavo proprio perché uscivo da un brutto periodo dove mi ero ammalato ed ero impossibilitato a lavorare: poi dopo un anno o due ricordo che durante una messa, quando don Angelo sollevò l’ostia alla Consacrazione, io la guardai e sentii chiaro e forte il desiderio di farmi diacono. Quando andai a dirglielo mi rispose “Va bene”, come per dire: “Sì lo so, te l’avevo già detto!”. Ritengo il diaconato un dono di Dio che convalida il mio desiderio di essere per gli ultimi, non solo per i bisognosi di pane ma anche per i bisognosi di considerazione, perché ognuno di noi è un portatore di qualche dono e di una missione.

Come descriveresti Dio? 

Se dovessi descrivere Dio lo descriverei come un arcobaleno, perché non riesco mai a racchiuderlo in una sola immagine. Ho tante immagini di Dio: può essere padre, madre, amico e alla fine mi viene in mente sempre tanta luce, tanti colori e tante espressioni che lo rendono infinito come la bellezza e come la poesia. 

Hai parlato prima degli ultimi. Che importanza ha per te il volontariato? 

Il volontariato penso debba essere mosso dall’attenzione alle relazioni dando tempo all’uomo. E questo serve in diversi campi: dal recupero dalle tossicodipendenze e dall’alcol fino all’aiuto alle ragazze madri. Il volontariato che personalmente amo di più è per me quello che nasce dalle occasioni quotidiane cercando l’uomo e rapportandosi con esso: una sorta di viandante che Dio mette sulla tua strada dandoti l’opportunità di porre al primo posto il servizio. 

Tornando nello specifico del tuo modo di intendere la poesia: quali sono gli ingredienti che ritieni fondamentali? 

Mi vengono in mente tre parole: sentimento, simbolo e messaggio. Sempre per cercare di produrre in me e negli altri il risveglio delle coscienze, sia per la propria dignità che per quella degli altri ma soprattutto senza dimenticare la Creazione, della quale cerco di cantare la bellezza attraverso la mia poesia e devo dire anche di difenderla. Tutti teniamo in ordine gli orti e i giardini delle nostre case ma penso sia ora di guardare anche oltre le nostre siepi, tenendo d’occhio la strada che tutti noi abbiamo davanti e che spesso smarriamo cadendo nell’abbruttimento: pensiamo a tutti i disastri che sfiancano il nostro pianeta ma anche le nostre città. 

C’è una poesia alla quale sei legato in maniera particolare? 

In genere è sempre l’ultima, perché fa parte di quel filo rosso che Qualcuno tiene in mano e che a volte rischio io stesso di spezzare. Proprio poco fa, prima di cominciare l’intervista, stavo abbozzando dei versi, che a volte nascono dalla contemplazione e delle altre vengono così, improvvisi. Stavo scrivendo così: “Maria, illogica, piena di grazia”. Una poesia alla quale sono affezionato è Profumi, che ho dedicato a mia moglie Sofia. 

Quali sono i momenti in cui ami scrivere? 

Il mio scrivere generalmente è improvviso: magari sto pregando o sto parlando con qualcuno e mi viene in mente qualche verso da scrivere. Ricordo che una volta non avevo con me nessun pezzo di carta e allora scrissi uno scritto di due o tre pagine su dei tovaglioli. Però il mio scrivere nasce anche dalle mie riflessioni e dai miei approfondimenti. Ultimamente mi capita di scrivere delle poesie che definisco didascaliche, come Lacrime, che recita così: “Terra arida, sonante d’acqua”. Ecco una piccola poesia, un pensiero. 

Oltre a scrivere poesie religiose e in italiano scrivi anche poesie in dialetto. Cosa rappresenta per te la poesia dialettale e qual è il messaggio che vuoi dare attraverso di essa? 

Qualcuno ha detto che un albero non può vivere senza radici. Io voglio ricordare a me stesso e agli altri che dobbiamo recuperare e curare le radici, non come cose da museo ma come essenza vitale per la nostra esistenza. La poesia dialettale è quindi suono, parola ancestrale, origine e radice dalla quale si sviluppa l’albero anche nella giusta dimensione di modernità. Non è solo ricordo e memoria ma anche uno strumento per cogliere scorci di Pordenone - come vicolo San Rocco e il Campanile di San Marco – da mantenere vivi. Attraverso la poesia dialettale cerco di mantenere vivi anche personaggi semplici che ho conosciuto in casa di riposo o che sono stati miei vicini di casa: ognuna di queste mie poesie ha un messaggio e l’obiettivo di dare voce a questi personaggi e ai colori delle loro sofferenze e delle loro speranze. 

Quali sono invece i riscontri dei lettori a proposito delle tue poesie? 

Devo dire che ho sempre ricevuto degli apprezzamenti, sia di persona che per mail: ad esempio per il recital “Rosso Risveglio” si sono complimentate tante persone. Ma gli apprezzamenti che mi piacciono di più sono quelli che escono fuori dai canoni, ad esempio: “La tua poesia mi ha talmente toccato il cuore che mi ha fatto piangere lacrime di sangue” – devo dire che mi sono anche un po’ sentito in colpa e mandai subito alla lettrice un’altra poesia! Inoltre sono contento quando i miei scritti vengono apprezzati per l’apertura alla speranza che cerco di trasmettere nei miei finali, a volte anche battendo forte per poter dare la possibilità di vedere la vita con un occhio diverso. Il mio obiettivo è quello di far pensare il lettore perché penso che oggi nella nostra società si pensi poco: sono convinto che ognuno di noi in fondo sia un poeta.

Ti viene più spontaneo scrivere in dialetto o in italiano? 

In passato scrivevo di più in italiano e lo scrivere in dialetto era sporadico e occasionale, mentre oggi è molto più frequente. Devo dire che la poesia dialettale è molto più diretta rispetto a quella scritta in italiano, che invece ha bisogno di essere letta più di una volta per essere compresa fino in fondo nel suo messaggio. 

Prima hai parlato di alcuni scorci di Pordenone. Ci sono dei luoghi che ritieni essere poesia o che ti sono di ispirazione in maniera particolare? 

Pordenone è una città violentata con un cuore piccolo architettonicamente ma che esprime grande arte: mi riferisco a tutto il centro di Pordenone e in particolare alle zone di San Marco e corso Vittorio Emanuele e di tutti i suoi vicoletti. Su Pordenone ho scritto una poesia che mi sta tanto a cuore e che amo molto perché le racchiude tutte – Filò – che parla della città e del Noncello e che inizia così: “Sol e Nonsel, se scambian caresse”. Ma ho anche scritto della città in maniera polemica in riferimento alle amministrazioni comunali perché credo che Pordenone meriti una cura maggiore, specie da noi cittadini. A volte mentre passeggio per il centro con Sofia mi capita di rimanere colpito da qualche dettaglio che genera in me poesia, magari mentre siamo seduti al tavolino di un bar a bere un caffè in mezzo alla gente che passa a piedi o in bicicletta. 

Che sensazioni ti ha lasciato la giornata del recital “Rosso Risveglio”? 

Il titolo “Rosso Risveglio” ha come significato un risveglio che nasce dal sangue e dalla sofferenza: un sangue che però è anche vita e la mia vita ha senso solo se diventa dono nella fatica del giorno, nella speranza, nel pensiero e nel dialogo con gli altri. Quando mi hanno fatto delle domande sul palco all’inizio ero un po’ a disagio ma dopo le prime due parole mi sono sentito bene e sicuro di me stesso perché quello che desideravo era comunicare con le persone per trasmettere un’esperienza e un messaggio di speranza. 

Hai qualche progetto in mente?

Un titolo che mi passa spesso per la mente è “Orazioni di Amore”, nel quale vorrei scrivere la poesia religiosa intramezzata da un altro tipo di poesia che è quella legata all’amore umano, come Profumi. Quello che per me è importante è scrivere tenendo conto del confronto, perché il dialogo ti aiuta ad emergere e a generare qualcosa che vale. Il pensiero chiuso è morto in partenza mentre quello aperto si allarga e riceve reciproci stimoli e reciproche risposte con chi entra in relazione con te. 





mercoledì 23 novembre 2016

REFERENDUM, SÌ VS NO: VOTARE INFORMATI




Mancano poco meno di due settimane a domenica 4 dicembre 2016, giorno in cui saremo chiamati a votare un referendum riguardante quella riforma costituzionale che tanto sta tenendo banco da un po' di mesi a questa parte su giornali, programmi radiofonici, social e telegiornali. 

Come in ogni referendum si contrappongono i due fronti: quello del no e quello del sì. Questo referendum è forse il più politicizzato come non accadeva da un po' di tempo: riguarda una riforma della Costituzione promossa dal governo Renzi e per questo motivo rischia di trasformarsi in un voto di giudizio sul Presidente del Consiglio piuttosto che sui contenuti della riforma. 

È quindi necessario più che mai scindere le due cose, per un voto che possa essere il più coerente possibile con la bontà o meno delle proposte e non un voto populista o da tifo da stadio. 

I CONTENUTI

Partiamo allora proprio dai contenuti: di cosa parla la riforma? 

1. Superamento del bicameralismo paritario
2. Ripartizione competenze statali e regionali (Titolo V della Costituzione)
3. Elezione del Presidente della Repubblica
4. Abolizione del CNEL (Consiglio Nazionale per l'Economia e il Lavoro)
5. Eliminazione delle Province

IL TESTO DEL QUESITO

Contenuti racchiusi nel testo del quesito che troveremo nella scheda referendaria: 

“Approvate il testo della legge costituzionale concernente disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della costituzione?”

UN REFERENDUM NON ABROGATIVO

Leggendo il testo è evidente come, a differenza di molte altre occasioni, il referendum al quale saremo chiamati a rispondere sì o no non sarà abrogativo e in quanto tale non sarà necessario alcun quorum: l'esito sarà infatti determinato semplicemente dal numero dei votanti che si recheranno alle urne. Viene meno quindi il principio dell'astensionismo che vedeva i contrari al referendum ostacolarne la validità non esercitando il voto. 

IL TESTO DELLA RIFORMA

In questo post non esprimerò alcun giudizio nè sulle ragioni del no nè su quelle del sì, non sostenendo alcuna posizione. Semplicemente riporterò alcune fonti dalle quali informarsi nella maniera più chiara possibile. 

Partendo proprio dal testo della riforma che potete trovare in Gazzetta Ufficiale. 

LE RAGIONI DEL SÌ E QUELLE DEL NO

Come detto molte sono le ragioni dei due fronti, che potete trovare qui: 

1. Comitato del Sì - Basta un Sì
2. Comitato del No - Io Voto No 

APPROFONDIMENTI

Di seguito anche alcuni link per approfondire tutte le tematiche che riguardano il referendum. 




Ovviamente non poteva mancare il celebre Speciale referendum su La7 di Enrico Mentana, così come varrebbe la pena seguire il dibattito televisivo - moderato sempre da Mentana - fra il Presidente del Consiglio Renzi e il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky:



Infine, #TBUtalksaboutcostituzione, lo speciale di The Bottom Up che approfondirà, con una serie di articoli, le ragioni del sì e quelle del no. 

Insomma, che votiate sì o che votiate no, l'importante è che lo facciate con senno. E andateci a votare, perché altrimenti a decidere saranno sempre gli altri. 


domenica 11 settembre 2016

THE FALLING MAN

The Falling Man, la fotografia scattata da Richard Drew
dell'Associated Press 
Dieci secondi. È il tempo che ci è mediamente voluto per morire gettandosi dalle finestre delle Torri Gemelle quell'ormai tragico 11 settembre 2001. È il tempo in cui mille pensieri hanno affollato la mente di chi stava precipitando con la consapevolezza di morire di lì a poco, di chi è stato costretto a scegliere come morire, senza l'opportunità al contrario di poter scegliere come salvarsi. Tremila morti in quel giorno che sono state vittime di quell'estremismo islamico che ancora oggi siamo costretti a combattere e che invece di essere debellato si è evoluto in qualcosa di più macabro. Tremila morti che rappresentano il pegno pagato dall'Occidente per politiche internazionali sbagliate e sfociate poi in guerre in nome di chissà quale ideale di democrazia che ancora oggi stiamo pagando e che ancora non sappiamo per quanto tempo ancora pagheremo.

"The Falling Man" è una fotografia che racconta quei dieci secondi in cui centinaia di persone hanno dovuto scegliere la morte per evitare la morte. Una foto che racconta la crudeltà del terrorismo, delle violenza, dell'intolleranza, del fondamentalismo religioso, dell'interesse politico. Una foto che racconta le vittime di tutto ciò e che oggi, a 15 anni di distanza da quel giorno che tanto ha segnato la storia dell'Occidente e del mondo intero, ci ricorda che nulla è cambiato.

LA STORIA DELLA CELEBRE FOTOGRAFIA RACCONTATA IN QUESTO ARTICOLO DE IL POST




sabato 3 settembre 2016

CHARLIE HEBDO E LA SATIRA MESCHINA

Dicono che se non sai capire (alcuni dicono anche apprezzare) le vignette di Charlie Hebdo, allora sei una persona limitata, intollerante, conservatrice, contro la libertà di espressione, incapace di capire l'ironia critica e di denuncia di un giornale che invece sa come raccontare al mondo la realtà di ciò che accade. Sì insomma, chi non capisce la satira (che satira non è) di Charlie Hebdo è una persona bigotta e priva di humor a cui piace fare il moralista.



E vabbè, sarò anche tutto questo e allora parto da un punto semplice: Charlie Hebdo mi fa schifo. O meglio, mi fa schifo la sua linea editoriale irrispettosa, volgare, presuntuosa e priva di buon senso. Ovviamente non per questo spezzerei le matite dei suoi "vignettisti", perché è vero, viviamo in una società dove la libertà d'espressione è (dovrebbe) essere sacra. Diciamo allora che se ci fossero meno giornaletti del genere l'informazione ne gioverebbe parecchio. Anzi, preciso: in primis a stare meglio sarebbe proprio la satira. Che diciamocelo, non ha niente a che fare con Charlie Hebdo.

La satira ha il compito di "colpire" con le parole e le immagini il potere e chi lo detiene, denunciando fatti e misfatti al fine di portare a una riflessione qualora questo potere non portasse al bene di una società. Ma ha dei limiti, quelli del rispetto e del buon senso, divenuti ormai un optional nella società del "faccio e dico quello che voglio".

Ieri il giornale francese ha pubblicato una vignetta che ritrae le vittime del terremoto che ha colpito il Centro Italia la settimana scorsa come se fossero "penne al sugo di pomodoro", "penne gratinate" e "lasagne". Insomma, come ha titolato Charlie Hebdo, di fronte avevamo un bel "terremoto all'italiana". Proteste e indignazione si sono subito fatte strade sul web e il giornale satirico ha pubblicato sulla sua pagina Facebook una nuova vignetta che recitava: "Italiani, non è Charlie Hebdo che ha costruito le vostre case ma la mafia".

Eh sì, la mafia, quel caro biglietto da visita che ci presenta al mondo intero, ovviamente insieme alla pasta al pomodoro e alle lasagne che Charlie Hebdo ha prontamente disegnato. Anni fa il settimanale tedesco Der Spiegel ci aveva (noi, cara serva Italia) rappresentati come un piatto di spaghetti con una rivoltella sopra, ma lì ovviamente era giusto indignarsi, protestare per un pregiudizio nei confronti dell'Italia deviato dal comune "italiani pizza, mafia e mandolino".



Così come era giusto indignarsi quando Libero, nel novembre 2015 a seguito degli attentati terroristici a Parigi, aveva titolato "Bastardi islamici", titolo provocatorio, volgare, irrispettoso, razzista, politicamente scorretto. Ma quindi, che differenza c'è fra il titolo di Libero e la linea editoriale di Charlie Hebdo? Nessuna, se non che il primo lancia il sasso mentre il secondo lancia il sasso e nasconde la mano, usando la satira come maschera che tutto giustifica in nome della libertà di espressione.



Nei giorni successivi al becero attentato contro lo stesso Charlie Hebdo da parte di Al Qaeda i giornalisti del giornale francese sopravvissuti hanno vissuto lo shock di aver rischiato di perdere la vita e di aver visto amici e colleghi morire sotto i colpi dell'estremismo e del fanatismo islamico. Il Tempo oggi ha aperto la prima pagina con questa eloquente e significativa vignetta:




Sì è vero io ho quel brutto morbo della morale cristiana che dice "non fare agli altri quello che non vorresti sia fatto a te". E quindi boh, penso che se il giorno dopo l'attentato a Charlie Hebdo fosse uscita davvero una vignetta del genere non credo che si sarebbero fatti davvero due risate. Non so, mi metterei nei panni di quei genitori che hanno perso dei figli sotto le macerie o di chiunque abbia perso una persona cara, vederseli rappresentati come delle penne al pomodoro. "Però oh, è la satira!".

Altri dicono: "L'hanno fatto anche con i loro morti, con quelli delle stragi di Parigi e di Nizza". Beh, signori, qui non si tratta di morti italiani o francesi, ma semplicemente di morti, che in quanto tali hanno il sacrosanto diritto di riposare in pace.

Che poi, da un giornaletto che ha avuto anche il coraggio di pubblicare una vignetta su Aylan, il bimbo di due anni trovato morto sulle coste turche dopo una traversata andata male, cosa mi dovrei aspettare? E anche lì tutti pronti a piangere e a battersi il petto.

Ma consiglio a questo punto la lettura del pensiero del vignettista Emilio Giannelli del Corriere della Sera, che titolando "Non si calpestano così trecento morti" ha detto tutto.

La posizione del vignettista Emilio Giannelli uscita oggi,
sabato 3 settembre 2016 , sul Corriere della Sera


Ma anche il Buongiorno di Massimo Gramellini dal titolo "Je suis o non Je suis" spiega ancora una volta meglio perché quella di Charlie Hebdo non è una vignetta satirica ma solo una provocazione di cattivo gusto.


Il Buongiorno di Massimo Gramellini uscito su La Stampa (3 settembre 2016)



Diceva bene in questi giorni Enrico Mentana su Facebook: "Charlie Hebdo è questo! Basta laicamente dire che una vignetta ci fa schifo". E allora sì, caro Charlie Hebdo: le tue vignette mi fanno schifo. E non perché fai satira, ma perché fai satira meschina. Se volevi davvero criticare la mafia italiana che costruisce case pericolanti potevi farlo in mille altri modi. Una cosa è certa: non rappresenti la libertà d'espressione.

sabato 16 luglio 2016

TURCHIA, DOPO IL TERRORISMO ECCO IL COLPO DI STATO

Sono passate poco più di due settimane dall'attentato all'aeroporto Ataturk di Istanbul e la Turchia torna ad essere teatro di violenza. Dopo le 42 vittime e 239 feriti targati Isis ecco le almeno 190 vittime del colpo di Stato che la scorsa notte ha visto una frangia dell'esercito turco tentare di prendere il potere con l'obiettivo di destituire Erdogan in nome della libertà civile e politica. 

Recep Tayyip Erdogan, 12° Presidente della Turchia

Un tentativo fallito dopo una iniziale situazione nella quale Erdogan sembrava addirittura in fuga e richiedente asilo in Germania e - pare - Gran Bretagna senza trovare però accoglienza. Un Erdogan che intanto, tramite FaceTime, aveva invitato la popolazione a scendere in strada per difendersi da un colpo di Stato "illegittimo", sperando di far leva su quella maggioranza che comunque lo appoggia nel Paese. E infatti ecco che la risposta della popolazione è prontamente arrivata, con i militari costretti alla resa e adesso in odore di severe sanzioni da parte di un Erdogan che ha promesso che i responsabili "pagheranno duramente per il loro tradimento". 

Erdogan si rivolge alla popolazione tramite FaceTime in diretta sulla CNN turca

Quasi 3000 i soldati "ribelli" arrestati e prima accerchiati dalla popolazione pronta a reagire al colpo di Stato, come testimoniano le immagini pubblicate da Rai News.  Ma cosa ha portato al fallimento di questo colpo di Stato (che Erdogan attribuisce al nemico Fethullah Gulen, imam e politologo turco, dichiaratamente ostile al Presidente turco)? Probabilmente una serie di fattori, in primis una disorganizzazione nell'effettuazione dell'azione rivoltosa da parte di una minoranza dell'esercito che non ha trovato l'appoggio dei militari di rango alto. In secondo luogo una reazione della popolazione probabilmente inaspettata, dopo che i militari avevano bloccato il ponte sul Bosforo e istituito il coprifuoco. 

Un evento che ovviamente ha dei risvolti geopolitici importanti, sia per quanto riguarda la politica interna della Turchia, sia per quanto riguarda il suo ruolo di Stato "cuscinetto" e di mediazione fra l'Europa e il Medio Oriente. 

Di seguito alcuni link per maggiori approfondimenti: 



giovedì 7 luglio 2016

CIAO, EMANUEL

Sopravvivere ad un attentato di Boko Haram, veder morire i tuoi genitori, i tuoi suoceri e un figlio, scappare dal tuo Paese, la Nigeria, attraversare il Nord Africa per raggiungere l'Italia sfidando la sorte con la tua ragazza, che nella traversata perde il figlio che aspettava. Arrivare in Italia, cercare di costruirsi una nuova vita e poi, dopo tutto ciò, morire pestato a sangue per mano di un fascista che non ha di meglio da fare che andare in giro a insultare te e tua moglie chiamandoti "scimmia africana". 

Questa, in estrema sintesi, la fine che ha fatto Emanuel, il ragazzo nigeriano di 36 anni ucciso ieri a Fermo dopo che aveva cercato di difendere sua moglie dagli insulti e dalle aggressioni di due ultrà locali. 

C'è poco da dire e da scrivere in merito, se non che questo, oltre a essere puro razzismo, è qualcosa di disumano e inaccettabile. Se ne parlerà fino a domani, massimo dopodomani, e poi tutti si saranno dimenticati di te, Emanuel, che hai superato mille pericoli per sperare in una vita migliore spezzata da chi ti dava della bestia senza rendersi conto di esserlo lui per primo. 

domenica 26 giugno 2016

BREXIT, FRA DEMOCRAZIA, POPULISMO E SCONTRI GENERAZIONALI

Brexit yes or Brexit no? Il dilemma che ha caratterizzato gli ultimi mesi della politica britannica ha visto gli inglesi optare per il Leave, facendo diventare inevitabilmente l'uscita del Regno Unito dall'Unione Europea l'argomento di discussione per eccellenza in questi giorni di intervallo fra una partita della Nazionale e l'altra. Assodato che da domani si tornerà a parlare di Europei, Conte, Spagna e ambizioni di vittoria, rimane un alone di mistero e confusione intorno all'esito del referendum britannico. Gioco forza la decisione di lasciare l'UE ha proiettato la stessa eventualità in tutti i Paesi membri in un'opinione pubblica da sempre propensa ad interrogarsi sul reale ruolo (ma soprattutto dell'identità) di questa fantomatica Europa.

Senza voler tirar fuori date ed eventi storici, trattati e convenzioni, c'è da dire che l'uscita del Regno Unito dall'Europa istituzionale e politica è un evento che crea un precedente storico importante. Le conseguenze saranno innanzitutto economiche, come conferma l'andamento delle Borse e della sterlina in questi giorni tribolati (sulla questione non mi addentro perché non ne ho le competenze, ma qui e qui potete leggere qualcosa di interessante per farvi un'idea). L'aspetto su cui vorrei provare a riflettere, senza ad arrivare ad una conclusione precisa perché forse è ancora presto per saperlo, è quello relativo al ruolo della democrazia in situazioni come queste.  

Il Leave sancito dai britannici ci dice innanzitutto che un Paese sa essere patriottico anche al di fuori dei Mondiali e degli Europei di turno. O almeno questa è stata una delle chiavi di lettura del referendum, ma ci arriveremo. Se su Google digitate Brexit otterrete immediatamente questa schermata con le percentuali ottenute dal Leave (lasciare) e dal Remain (rimanere). 




Insomma percentuali non così schiaccianti ma comunque significative e probabilmente non prevedibili, dati i sondaggi effettuati prima dell'esito referendario. Andando più nello specifico nell'analisi del voto la Scozia e l'Irlanda del Nord hanno visto prevalere il Remain, al contrario del Galles che ha scelto per il Leave. Significativa è anche la scelta di Londra, città con più di 8 milioni e mezzo di abitanti e largamente abitata e vissuta da non britannici, che ha infatti visto prevalere il Remain, a indicare comunque una mentalità abituata ad un ottica multietnica ed europeista. Mettiamoci pure il contributo che gli stranieri danno all'economia della città e il neo sindaco musulmano Sadiq Khan e due più due fa quattro. 

Ma l'analisi che più ha tenuto banco in questi primi giorni post Brexit è quella relativa al voto generazionale. Tra gli inglesi con più di 65 anni solo il 40% ha votato per restare nell'Unione Europea mentre tra i votanti fino a 34 anni la percentuale sale al 62%. Infine tra i ragazzi tra i 18 e i 24 anni quelli favorevoli all'Europa sono il 73%. Beppe Severgnini in un articolo uscito sul Corriere.it ha parlato di una Decrepita Alleanza che avrebbe di fatto sgambettato i nipoti e il loro futuro. Su Gli Stati Generali si sottolinea però un altro dato: solo il 36% degli under 25 aventi diritto al voto è andato a votare. Della serie: sì, i nonni hanno votato per il Leave, ma non è che i nipoti si siano dati così da fare per garantire il loro futuro sotto le ali di Mamma Europa

E qui veniamo al ruolo della democrazia. Premessa: non si vuole mettere in dubbio la validità e la necessità di una società democratica e aperta al libero pensiero. Meglio specificarlo, soprattutto dopo il dibattito Mein Kampf sì - Mein Kampf no nelle edicole. La solita famosa questione è: una testa = un voto. Non importa che quella testa sia - passatemi il termine - vuota o con del sale in zucca. Anche perché in democrazia se un'opinione è degna di un'altra mica la si può misurare per intelligenza. La conseguenza però è: quanto il cosiddetto popolo di una Nazione è in grado di prendere certe decisioni? Quanto il Leave è stato dettato da logiche populistiche/patriottiche/nostalgiche di un passato che non c'è più e quanto da ponderazioni politiche ed economiche? Che poi il leader della campagna per il Leave Nigel Farage si rimangi in televisione la promessa di stanziare i soldi risparmiati dall'appartenere all'UE alla sanità è indicativo di una quantomeno non chiara situazione sulle scelte di voto e sulle dinamiche che le hanno sancite.



Ah, mettiamoci pure che gli inglesi hanno iniziato a googlare freneticamente cosa comportasse lasciare l'UE solo DOPO aver votato fa pensare un pochino...



Se Brexit avrà conseguenze catastrofiche per il Regno Unito e l'Europa lo vedremo con il tempo. Forse addirittura sarà la miglior casa ci potesse capitarci, alla faccia di decenni di programmi Erasmus, libera circolazione, Trattati e convenzioni economiche. Certo immaginarsi una campagna elettorale targata Salvini incentrata sui benefici del ruspare l'Europa e chiudere le frontiere mette i brividi, soprattutto a pensare che c'è chi di queste idee se ne riempie la bocca. Però vabbé, in democrazia una testa = un voto e (quasi) ogni opinione merita di essere espressa. Anche se non tutti siamo economisti. Me compreso.

martedì 21 giugno 2016

A PORDENONE SI CAMBIA: ALESSANDRO CIRIANI È IL NUOVO SINDACO


Alessandro Ciriani, neo Sindaco di Pordenone
Con il 58,81% dei voti al ballottaggio di domenica scorsa Alessandro Ciriani è il nuovo Sindaco di Pordenone. Il candidato della lista civica a lui intestata riporta quindi il centrodestra al governo della città dopo 15 anni di amministrazione guidata dal centrosinistra. Dopo i due mandati di Sergio Bolzonello e l'ultima amministrazione targata Claudio Pedrotti (non ricandidatosi per un secondo mandato) il centrosinistra è costretto a tornare all'opposizione, con la candidata Daniela Giust ferma al 41,19% delle preferenze in un turno di ballottaggio che la vedeva all'inseguimento di Ciriani dopo i 12 punti di distacco accumulati al primo turno (33,23% contro i 45,48% del candidato di centrodestra). Insomma, era già chiaro, a meno di grossi ribaltoni, che Pordenone avrebbe visto di nuovo la logica politica dell'alternanza, ampiamente già nell'aria ancor prima dei turni di elezioni. Dopo tre amministrazioni - l'ultima non particolarmente esaltante - il PD ha dovuto pagare un po' di stanchezza al traguardo, accumulata nel corso degli ultimi anni, nei quali il partito del Premier Renzi non ha dimostrato quella unità di intenti spesa invece proficuamente in passato. 

A livello nazionale il PD ha incassato sconfitte notevoli, Roma e Torino su tutte visto le clamorose vittorie dei 5 Stelle, conservando solo Milano con la vittoria di misura di Beppe Sala. Si è parlato di voto di protesta, di voto contro Renzi e di insoddisfazione di un elettorato - quello di sinistra - che nel PD non si riconosce più. Tutto vero, quantomeno in parte. A Torino probabilmente Piero Fassino paga proprio quella logica dell'alternanza che vede i cittadini ormai propensi a cambiare "guida" dopo tanti anni di fiducia data a un candidato, amplificata ormai da un voto di appartenenza scomparso con la Prima Repubblica, dalla sfiducia verso l'intera classe politica e diciamocelo, sfociata proprio nel voto di protesta incarnato dal Movimento 5 Stelle. E questo ultimo punto è la risposta alla (prevedibile) vittoria di Virginia Raggi nella Capitale. A Roma, se vogliamo, a diventare Sindaco non è stata la Raggi ma proprio il M5S. Diciamo che poteva esserci chiunque al posto della prima donna Sindaco di Roma: dopo i fatti di Mafia Capitale qualunque candidato pentastellato avrebbe indossato la fascia da primo cittadino. A meno che, dicendola proprio tutta, il centrodestra non si fosse autoeliminato ingenuamente (ma questo sarebbe un altro lungo discorso da affrontare). 

Virginia Raggi e Chiara Appendino,
le due candidate del M5S che hanno conquistato Roma e Torino


Insomma, tornando a Pordenone, il PD paga sì l'attuale scarso apprezzamento a livello nazionale, ma anche una fase amministrativa calante a livello locale. Componente fondamentale alle elezioni comunali, dove rispetto al voto di partito si tende a dare molta più importanza alle dinamiche cittadine. E proprio qui il PD non è arrivato compatto al voto, con il Sindaco uscente non ricandidato e la candidata Giust costretta a cercare di salvare il salvabile. Come si appresta Pordenone ad affrontare i prossimi cinque anni? Il Consiglio Comunale vedrà il neo Sindaco Ciriani sostenuto da una maggioranza di 24 consiglieri: 10 della sua lista, 4 della Lega Nord, 4 di Forza Italia, 4 di Fratelli d'Italia e 2 di Autonomia Responsabile. I consiglieri di minoranza saranno invece 16, così distribuiti: 5 per il PD (oltre a Daniela Giust), 2 di Pordenone 1291, 2 del Fiume, 1 della lista Cittadini per Daniela Giust, 1 del Movimento 5 Stelle (il candidato Sindaco al primo turno Samuele Stefanoni) e 3 della lista Giannelli (oltre a Francesco Giannelli, candidato Sindaco al primo turno). 

Di solito il cambiamento porta vento di novità e di nuovo inizio. Se il ritorno ad una amministrazione di centrodestra sarà un bene o un male lo si vedrà col tempo. Di sicuro c'è solo una cosa: la necessità di una classe politica, amministrativa e all'opposizione, che lavori e cooperi per la città. 

In bocca al lupo Pordenone! 

martedì 10 maggio 2016

BRAND JOURNALISM: AZIENDE E BRAND FRA COMUNICAZIONE E INFORMAZIONE

Photo Credit: LinkedIn

“Chi fa comunicazione aziendale non fa giornalismo”. Una frase sintetica ma piena di significato quella pronunciata da Marco Bardazzi (@marcobardazzi), direttore della comunicazione esterna di Eni, lo scorso 3 maggio durante l’incontro La comunicazione è una bella storia. Il cane a sei zampe nell’era digitale, tenutosi in Cattolica presso la sede di Largo Gemelli. 

Bardazzi è stato protagonista del racconto della comunicazione del colosso energetico illustrando quelli che sono i cardini di un nuovo modo di comunicare (e fare comunicazione) nell’era del web 2.0 e dei contenuti condivisi. Filo rosso di questa comunicazione è lo storytelling, strumento utile non solo per raccontare storie ma soprattutto per produrre contenuti attorno ai quali creare una community a cui parlare. Creare valore, fiducia e fidelizzazione con il cliente/utente è l’obiettivo che muove oggi le aziende e la loro comunicazione in questo senso viene sempre più ad intrecciarsi con il fare informazione tipico del giornalismo. Ma, come detto all’inizio di questo post, la comunicazione aziendale non è giornalismo. Quindi com’è che queste due realtà interagiscono fra loro? La risposta sta in quello che viene chiamato brand journalism

Dare una definizione precisa di brand journalism è probabilmente impossibile, dato il continuo mutamento del settore digital. Ma è sicuramente utile partire da alcune parole chiave: brand, giornalismo, content, informazioni. Per capire cosa sia il brand journalism si può partire da quello che è il suo obiettivo: essere fonte per il pubblico di riferimento di un’azienda. Il brand crea contenuti da fornire al proprio pubblico attraverso la “comunicazione narrata” dello storytelling per trasmettere informazioni in maniera disintermediata e indipendente. Si crea così un processo di self-building reputation evitando il pericolo che la propria reputazione sia esclusivamente nelle mani dei mezzi di informazione tradizionali e terze parti. 

Rimanendo nell’universo Eni è esemplare il caso Eni vs Report, che ha visto l’azienda sapersi (magistralmente) difendere dall’inchiesta giornalistica del programma condotto da Milena Gabanelli (tempo fa ne avevo parlato in questo post sul blog The Bottom Up). Il brand journalism permette quindi all’azienda di produrre contenuti non solo in grado di creare awareness ma anche in grado di essere strumenti per gestire casi di crisis management e brand reputation. In questo senso i metodi tipici del mondo giornalistico nel reperire fonti e informazioni vengono sfruttati dall’azienda per divenire punto di riferimento per il proprio pubblico di riferimento creando un rapporto diretto con il cliente/utente in maniera disintermediata e per parlare direttamente con i propri stakeholders. Nel caso specifico di Eni il background giornalistico di Bardazzi - che ha lavorato a La Stampa e all’ANSA - così come quello di Daniele Chieffi (@DanieleChieffi) - attualmente Head of Web Media Relations, Social Media management and Reputation Monitoring Eni con un passato al quotidiano La Repubblica - sono stati quel valore in più che ha permesso all’azienda di sapersi raccontare in un contesto mediatico di crisi, fornendo contenuti ben strutturati su Twitter e sul proprio sito creando una narrazione alternativa, coerente e di risposta a quella di Report. 

Sempre rimanendo in Eni, un altro esempio di brand journalism e di creazione di contenuti è stato il “buongiorno” quotidiano dato da Chieffi nelle cinque giornate del Festival Internazionale del Giornalismo, consueto appuntamento che si tiene ogni anno a Perugia nel mese di aprile. Numeri, curiosità e andamenti del Festival sono stati snocciolati in brevi video da Eni (in collaborazione con l’agenzia di comunicazione Doing), con tanto di interviste ad esperti del settore per approfondire quello che è oggi il rapporto fra comunicazione e informazione. Un esempio di storytelling ribattezzato #energytelling e veicolato attraverso i canali social di Eni e la piattaforma di storytelling Eniday



Ricapitolando nella comunicazione 2.0 il brand journalism permette quindi alle aziende di essere un punto di riferimento per il proprio pubblico di utenti e di stakeholders, verso i quali vengono prodotti contenuti che possano essere di valore. Quello che cambia rispetto al giornalismo puro è il ruolo: le aziende non possono (e non devono) essere dei watchdogs ma dei player che informano su ciò che le riguarda, diventando in qualche modo editori di sé stessi. Sta cambiando quindi la comunicazione aziendale e il modo di rapportarsi all’esterno verso portatori di interessi, clienti e media tradizionali mainstream, con i brand che hanno in questo senso uno spazio sempre maggiore per raccontarsi e trasmettere il proprio valore e il proprio punto di vista  attraverso gli strumenti del giornalismo e dello storytelling


Photo Credit: Virtual14

giovedì 24 marzo 2016

ATTENTATI BRUXELLES, UN PO' DI RASSEGNA STAMPA PER CAPIRNE DI PIÙ


Il messaggio di cordoglio di un piccolo rifugiato nel campo profughi di Idomeni,
al confine fra Grecia e Macedonia


Martedì 22 marzo 2016 sarà un'altra data che l'Europa sarà costretta a ricordare nella lotta al terrorismo e al fondamentalismo islamico. Dopo gli attentati dello scorso 13 novembre a Parigi, che già si aggiungevano all'attentato a Charlie Hebdo e ai numerosi attentati in giro per il mondo, la paura e la violenza tornano ad essere d'attualità.

Per capirne qualcosa di più propongo alcuni articoli in una sorta di piccola rassegna stampa dedicata ai fatti di Bruxelles, cercando di toccare quelli che sono i punti chiave dell'ormai dibattuto tema terrorismo islamico.

- GAZEBO. EDIZIONE STRAORDINARIA DOPO GLI ATTENTATI DI BRUXELLES: IL RACCONTO DELLA GIORNATA ATTRAVERSO INTERNET E I SOCIAL NETWORK. 


- INTERNAZIONALE. PERCHÈ IL BELGIO È IL FOCOLAIO DEL JIHADISMO EUROPEO.

- LA REPUBBLICA. ATTACCO A BRUXELLES, VIAGGIO NELLA CITTÀ TRA CORAGGIO E RASSEGNAZIONE. 

- THE BOTTOM UP. BASTA BUFALE, DI COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI ISIS E DI TERRORISMO ISLAMICO? 


mercoledì 13 gennaio 2016

PORDENONE, CITTÀ DELL'ACCOGLIENZA. INTERVISTA AL PREFETTO LAGANÀ

È di stretta attualità l'intenzione del Presidente del Consiglio Matteo Renzi di eliminare il reato di clandestinità - approvato dal Governo Berlusconi nel 2009 - da lui definito "inutile" (qui l'intervista rilasciata al TG1). E relativamente alla questione "immigrazione" negli ultimi mesi si è discusso molto sulle misure da adottare per l'accoglienza delle migliaia di profughi che scappano dal Medio Oriente e dall'Africa, sia a livello locale e nazionale che a livello europeo. In realtà senza prendere chissà quali misure lasciandosi invece trasportare dall'emotività diretta faziosamente da chi i migranti li aiuterebbe a casa loro (chiedere a Matteo Salvini o all'Ungheria) o da chi al contrario è mosso da compassione e solidarietà. E di certo le vicende di Parigi dello scorso novembre non hanno aiutato molto nel prendere decisioni. 

Detto questo ritengo utile proporre qui di seguito l'intervista che il Prefetto di Pordenone, Maria Rosaria Laganà, mi ha gentilmente concesso per il numero di Eventi di dicembre, nel quale si è cercato di raccontare in cosa consiste l'immigrazione, come funziona l'accoglienza, da cosa scappano questi profughi ma soprattutto portare la testimonianza delle loro storie. Un'intervista nella quale si prova a capire e spiegare come le autorità e le istituzioni si muovono di fronte a tale emergenza. 

Il tema dell'immigrazione e dei profughi si intreccia inevitabilmente con quello della sicurezza e del terrorismo, soprattutto dopo i recenti attentati di Parigi, che hanno comportato un aumento dell'allerta in tutta Europa: quali sono le misure adottate nel nostro territorio?


Innanzitutto c'è ovviamente da dire che c'è stata un'allerta di carattere generale da parte del Ministero invitando i prefetti a definire la vigilanza per quanto riguarda gli obiettivi sensibili: il giorno successivo agli attentati di Parigi (avvenuti il 13 novembre, ndr) si è tenuta infatti una riunione del comitato per valutare la situazione. Ovviamente nel nostro territorio l'obiettivo sensibile è la base militare di Aviano, già di per sé un obiettivo a rischio. C'è poi il centro islamico, un centro moderato ma attentamente seguito, e in generale sono state alzate le misure di vigilanza su tutto il territorio. C'è inevitabilmente da parte delle forze dell'ordine e delle Prefetture una particolare attenzione a quello che è l'evolversi della situazione perché lo scenario è talmente mutevole e complesso – dato anche il Giubileo a Roma – da meritare la giusta attenzione. La realtà di Pordenone è diversa da quella di località a maggior rischio, come Roma appunto e Milano, con il Duomo e la Scala come obiettivi sensibili. Per fortuna non si notano nella nostra città fenomeni di insofferenza e sospetto nei confronti di queste presenze straniere e questo è importante per ciò che riguarda l'accoglienza e l'integrazione. E in questo senso ci teniamo a prevenire frizioni e problematiche al fine di armonizzare il più possibile la presenza degli stranieri con la giusta e necessaria attenzione alle esigenze delle collettività locali che li ospitano.  

Per quanto riguarda le ondate di profughi possiamo dire che sia un fenomeno per il quale è impossibile fare stime e previsioni precise. Qual è la situazione attuale di Pordenone, ad esempio in riferimento ai richiedenti asilo?

Leggendo i giornali sembra che sia un disastro ma in realtà non è così. In questo momento (19 novembre, ndr) Pordenone sta ospitando 530 richiedenti asilo, ossia quei soggetti per i quali è stata avviata una procedura per il riconoscimento dello status di rifugiato e che sono in attesa di essere convocati dalla Commissione di Gorizia, ovvero essendo stata rigettata la prima istanza sono in attesa del pronunciamento da parte del Tribunale di Trieste. Per queste persone abbiamo deciso di seguire il principio dell'accoglienza diffusa: vengono distribuiti, per quanto possibile, sul territorio in piccoli gruppi e possiamo dire di esserci riusciti al 90%. La struttura più numerosa è l'hotel Antares di Piancavallo, la cui capienza permetterebbe di ospitare anche 200 persone ma volendo noi garantire una presenza il più possibile distribuita ci siamo fermati alla soglia di 70. Gli ultimi arrivi dalla rotta balcanica ci hanno fatto aumentare la presenza a 100 persone in attesa di distribuirli sul territorio.

Quali sono le misure attualmente previste per l'accoglienza?

Il Friuli e Pordenone nell'ultimo periodo hanno come priorità quella di accogliere i migranti provenienti dalla rotta balcanica - principalmente afghani, pakistani e iracheni – mentre prima c'era anche l'emergenza Mare Nostrum. A livello nazionale è stata decisa una ripartizione dei profughi in base a delle quote regionali e al Friuli spetta il 2,19% del totale, quota che naturalmente subisce l'effetto dei continui nuovi arrivi. E la nostra regione, data la sua posizione geografica, ha stabilmente un numero di arrivi tale da dover chiedere la redistribuzione in altre regioni: questo è avvenuto anche la settimana scorsa (metà novembre, ndr) quando circa 200 richiedenti asilo sono stati spostati in altre località, 10 dei quali da Pordenone verso Terni. In generale quindi tutte le province stanno affrontando questa situazione di emergenza coordinata dal Ministero dell'Interno. Secondo le stime di questa estate dovremmo raggiungere una quota di 650 richiedenti asilo: all'inizio dell'estate eravamo a 220 mentre ora siamo già a 530.

Quali sono le strutture a disposizione? Sono sufficienti per la prima accoglienza?

Non è una ricerca facile quella delle strutture – nonostante il principio dell'accoglienza diffusa che di fatto garantisce una collaborazione fra lo Stato e le amministrazioni locali - perché i Comuni quasi mai riescono a proporre delle soluzioni tramite strutture proprie. L'ideale sarebbe una situazione nella quale le Prefetture si interfacciano con i Comuni che gestiscono l'accoglienza con le proprie strutture ovviamente con i costi a carico dello Stato. Ciò è difficile da realizzare e quindi la ricerca avviene tramite strutture private, che possono essere gli appartamenti, gli alberghi e i B&B non più utilizzati come tali. Ovviamente veniamo ad interagire anche con delle cooperative – abbiamo fatto un bando proprio quest'estate – per gestire quest'accoglienza integrata, come prevede la normativa, che parla non solo di vitto e alloggio ma anche di accompagnamento legale, assistenza sanitaria e apprendimento della lingua. In generale, dati anche purtroppo i tempi lunghi per concludere l'iter, si cerca di garantire un inserimento – anche attraverso la mediazione linguistica – nella comunità che accoglie queste persone, quasi tutte con un'età inferiore ai 30 anni. Le strutture a disposizione sono circa 25, distribuite su tutto il territorio provinciale - da Pordenone a Maniago, fino a Sacile, Aviano, Fanna, Cavasso, Tramonti di Sopra e Pravisdomini – e in aumento di giorno in giorno. Sicuramente stiamo lavorando per creare una serie di soluzioni che evitino situazioni di emergenza come quella che si era creata al parco San Valentino e che devo dire è stata risolta adeguatamente grazie anche all'intervento del Comune e del Sindaco Pedrotti, con i quali c'è un'ottima collaborazione: l'aver sistemato in questo periodo 530 profughi lo testimonia.

Per quanto riguarda Pordenone si è parlato ultimamente di un tramonto del capannone in Comina e invece della sede dell'Acli di Cordenons come di una possibile opzione per l'accoglienza.

Fino a poco tempo fa i profughi arrivavano a Gorizia e a Trieste e ci venivano mandati per alleggerire e distribuire meglio l'accoglienza. Aumentando il flusso ne risente anche Pordenone e la tendopoli del San Valentino ne è il risultato: se arrivano due profughi si può trovare una sistemazione, se ne arrivano dieci in una volta la cosa è più difficile. Per questo motivo si sta cercando una struttura in grado di aumentare nell'immediatezza la capacità di accoglienza e sistemazione di queste persone. Erano stati individuati quindi due capannoni: quello della Comina e appunto la struttura di Cordenons. Quello della Comina purtroppo presenta delle problematiche dovute sia alla sua collocazione – si trova all'interno di un complesso industriale e quindi in contiguità con altri spazi – sia per questioni di sicurezza, ma non è un'ipotesi abbandonata definitivamente. Per quanto riguarda la struttura di Cordenons c'è invece una valutazione che definirei a buon punto. La collaborazione con le cooperative ci ha portato a vagliare anche altre possibilità sul territorio della provincia: ovviamente c'è bisogno di tempo perché bisogna anche individuare chi poi deve gestire l'accoglienza in queste strutture.

Per quanto riguarda invece l'hub alla Caserma Monti?

Anche in questo caso c'è un iter in corso, tra l'altro non facile perché dovendo intervenire su un manufatto vecchio è forse più complicato che non rifarlo nuovo, ma questa è la situazione. In questi giorni (19 novembre, ndr) si stanno completando gli atti per poi indire il bando di gara da parte della Protezione Civile per l'affidamento dei lavori. Ci sono questioni da risolvere relative essenzialmente alla struttura in sé, come le condotte idriche e fognarie, ma siamo in dirittura d'arrivo: per dicembre si dovrebbe conoscere la ditta alla quale saranno affidati i lavori che dovrebbero durare almeno tre mesi e quindi l'inverno dovremo affrontarlo purtroppo senza la Monti.

Quali sono i rapporti di collaborazione con le associazioni di immigrati che si occupano di immigrazione?

Ci sono numerose comunità con le quali la Prefettura si interfaccia quotidianamente sia per quanto riguarda gli aspetti legati alla cittadinanza sia per quanto riguarda le procedure di inserimento lavorativo. Ci sono poi una serie di associazioni di tipo solidaristico – sia di cittadini stranieri che di cittadini italiani – che si occupano di ciò che riguarda il supporto ai migranti e devo dire che ormai si è creata una sorta di sinergia fra questi soggetti e la Prefettura, sia con l'Ufficio cittadinanza sia con l'Ufficio stranieri. I rapporti con queste associazioni sono quindi positivi, se pensiamo poi soprattutto alle ultime ondate di richiedenti asilo.

A proposito di integrazione: passando nello specifico al nostro territorio, quali sono le comunità straniere più numerose?

Le comunità straniere non comunitarie sono nell'ordine quella albanese con quasi 5000 componenti, poi quella ghanese con 2300, quella indiana con 1394, quella ucraina con 1271, quella moldava con 817, quella del Bangladesh con 717 e infine quelle macedoni e cinesi che sono le più piccole. Per quanto riguarda invece i comunitari i più numerosi sono i cittadini rumeni. Possiamo certamente dire che Pordenone è una città con una grande tradizione di integrazione e nonostante una popolazione straniera molto elevata la comunità pordenonese è sempre stata molto accogliente.

Quali sono i tempi attuali di conferimento della cittadinanza italiana?

Sicuramente per quanto riguarda la cittadinanza – sia in caso di residenza ininterrotta per dieci anni in Italia, sia in caso di matrimonio con cittadino italiano - i tempi non sono brevi anche se rispetto al passato la situazione è migliorata molto: la legge prevede 730 giorni per la conclusione del procedimento. Per quanto riguarda la concessione della cittadinanza per matrimonio abbiamo una tempistica di 18 mesi in media, mentre per quanto riguarda la cittadinanza per la maturazione della residenza i tempi sono un po' più lunghi e si aggirano attorno ai 3 anni.

In caso di regolamentazione dell'acquisizione della cittadinanza tramite ius soli (proposta di legge approvata alla Camera e in discussione al Senato), cosa cambierà rispetto all'attuale legge (n.° 91, 5 febbraio 1992) basato invece sullo ius sanguinis?

In caso di regolamentazione in base allo ius soli per chi è nato in Italia ci sarebbe presumibilmente un'accelerazione nelle tempistiche che favorirebbe anche il processo di integrazione e quindi il sentirsi parte integrante di una comunità al di là del semplice essere destinatari di diritti e doveri. Gli attuali tempi – necessari ad una verifica dei requisiti del richiedente la cittadinanza - sicuramente non favoriscono invece questo aspetto perché oggettivamente tre anni sono tanti. Lo ius soli permetterebbe accertamenti più semplici accorciando i tempi – ricordiamo che la normativa parla di ius soli temperato nel senso che almeno uno dei genitori deve essere in possesso di regolare permesso di soggiorno – ma c'è anche un aspetto più culturale relativo ad un naturale processo di integrazione sociale e anche ad una regolare frequentazione scolastica. E infatti in questo senso si parla di ius culturae. Infine ritengo che ci sarebbe così anche la possibilità di dare una risposta immediata a quelle generazioni di persone nate in Italia - che obiettivamente mal comprenderebbero tempistiche attualmente così lunghe – magari aiutandole in questo modo anche ad inserirsi nel mondo del lavoro integrandosi così perfettamente.

ARTICOLO PUBBLICATO NEL NUMERO DI DICEMBRE DELLA RIVISTA EVENTI