sabato 26 settembre 2015

IL DISCORSO INTEGRALE DI PAPA FRANCESCO ALL'ONU


"Signor Presidente, Signore e Signori,
Ancora una volta, seguendo una tradizione della quale mi sento onorato, il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha invitato il Papa a rivolgersi a questa onorevole assemblea delle nazioni. A mio nome e a nome di tutta la comunità cattolica, Signor Ban Ki-moon, desidero esprimerLe la più sincera e cordiale riconoscenza; La ringrazio anche per le Sue gentili parole. Saluto inoltre i Capi di Stato e di Governo qui presenti, gli Ambasciatori, i diplomatici e i funzionari politici e tecnici che li accompagnano, il personale delle Nazioni Unite impegnato in questa 70.ma Sessione dell’Assemblea Generale, il personale di tutti i programmi e agenzie della famiglia dell’ONU e tutti coloro che in un modo o nell’altro partecipano a questa riunione. Tramite voi saluto anche i cittadini di tutte le nazioni rappresentate a questo incontro. Grazie per gli sforzi di tutti e di ciascuno per il bene dell’umanità. 

Questa è la quinta volta che un Papa visita le Nazioni Unite. Lo hanno fatto i miei predecessori Paolo VI nel 1965, Giovanni Paolo II nel 1979 e nel 1995 e il mio immediato predecessore, oggi Papa emerito Benedetto XVI, nel 2008. Tutti costoro non hanno risparmiato espressioni di riconoscimento per l’Organizzazione, considerandola la risposta giuridica e politica adeguata al momento storico, caratterizzato dal superamento delle distanze e delle frontiere ad opera della tecnologia e, apparentemente, di qualsiasi limite naturale all’affermazione del potere. Una risposta imprescindibile dal momento che il potere tecnologico, nelle mani di ideologie nazionalistiche o falsamente universalistiche, è capace di produrre tremende atrocità. Non posso che associarmi all’apprezzamento dei miei predecessori, riaffermando l’importanza che la Chiesa Cattolica riconosce a questa istituzione e le speranze che ripone nelle sue attività. 

La storia della comunità organizzata degli Stati, rappresentata dalle Nazioni Unite, che festeggia in questi giorni il suo 70° anniversario, è una storia di importanti successi comuni, in un periodo di inusitata accelerazione degli avvenimenti. Senza pretendere di essere esaustivo, si può menzionare la codificazione e lo sviluppo del diritto internazionale, la costruzione della normativa internazionale dei diritti umani, il perfezionamento del diritto umanitario, la soluzione di molti conflitti e operazioni di pace e di riconciliazione, e tante altre acquisizioni in tutti i settori della proiezione internazionale delle attività umane. Tutte queste realizzazioni sono luci che contrastano l’oscurità del disordine causato dalle ambizioni incontrollate e dagli egoismi collettivi. È sicuro che, benché siano molti i gravi problemi non risolti, è però evidente che se fosse mancata tutta quell’attività internazionale, l’umanità avrebbe potuto non sopravvivere all’uso incontrollato delle sue stesse potenzialità. Ciascuno di questi progressi politici, giuridici e tecnici rappresenta un percorso di concretizzazione dell’ideale della fraternità umana e un mezzo per la sua maggiore realizzazione. Rendo perciò omaggio a tutti gli uomini e le donne che hanno servito con lealtà e sacrificio l’intera umanità in questi 70 anni. In particolare, desidero ricordare oggi coloro che hanno dato la lorovita per la pace e la riconciliazione dei popoli, a partire da Dag Hammarskjöld fino ai moltissimi funzionari di ogni grado, caduti nelle missioni umanitarie di pace e di riconciliazione. 

L’esperienza di questi 70 anni, al di là di tutto quanto è stato conseguito, dimostra che la riforma e l’adattamento ai tempi sono sempre necessari, progredendo verso l’obiettivo finale di concedere a tutti i Paesi, senza eccezione, una partecipazione e un’incidenza reale ed equa nelle decisioni. Tale necessità di una maggiore equità, vale in special modo per gli organi con effettiva capacità esecutiva, quali il Consiglio di Sicurezza, gli Organismi finanziari e i gruppi o meccanismi specificamente creati per affrontare le crisi economiche. Questo aiuterà a limitare qualsiasi sorta di abuso o usura specialmente nei confronti dei Paesi in via di sviluppo. Gli organismi finanziari internazionali devono vigilare in ordine allo sviluppo sostenibile dei Paesi e per evitare l’asfissiante sottomissione di tali Paesi a sistemi creditizi che, ben lungi dal promuovere il progresso, sottomettono le popolazioni a meccanismi di maggiore povertà, esclusione e dipendenza. 

Il compito delle Nazioni Unite, a partire dai postulati del Preambolo e dei primi articoli della sua Carta costituzionale, può essere visto come lo sviluppo e la promozione della sovranità del diritto, sapendo che la giustizia è requisito indispensabile per realizzare l’ideale della fraternità universale. In questo contesto, è opportuno ricordare che la limitazione del potere è un’idea implicita nel concetto di diritto. Dare a ciascuno il suo, secondo la definizione classica di giustizia, significa che nessun individuo o gruppo umano si può considerare onnipotente, autorizzato a calpestare la dignità e i diritti delle altre persone singole o dei gruppi sociali. La distribuzione di fatto del potere (politico, economico, militare, tecnologico, ecc.) tra una pluralità di soggetti e la creazione di un sistema giuridico di regolamentazione delle rivendicazioni e degli interessi, realizza la limitazione del potere. Oggi il panorama mondiale ci presenta, tuttavia, molti falsi diritti, e – nello stesso tempo – ampi settori senza protezione, vittime piuttosto di un cattivo esercizio del potere: l’ambiente naturale e il vasto mondo di donne e uomini esclusi. Due settori intimamente uniti tra loro, che le relazioni politiche ed economiche preponderanti hanno trasformato in parti fragili della realtà. Per questo è necessario affermare con forza i loro diritti, consolidando la protezione dell’ambiente e ponendo termine all’esclusione. 

Anzitutto occorre affermare che esiste un vero “diritto dell’ambiente” per una duplice ragione. In primo luogo perché come esseri umani facciamo parte dell’ambiente. Viviamo in comunione con esso, perché l’ambiente stesso comporta limiti etici che l’azione umana deve riconoscere e rispettare. L’uomo, anche quando è dotato di «capacità senza precedenti» che «mostrano una singolarità che trascende l’ambito fisico e biologico» (Enc. Laudato sì, 81), è al tempo stesso una porzione di tale ambiente. Possiede un corpo formato da elementi fisici, chimici e biologici, e può sopravvivere e svilupparsi solamente se l’ambiente ecologico gli è favorevole. Qualsiasi danno all’ambiente, pertanto, è un danno all’umanità. In secondo luogo, perché ciascuna creatura, specialmente gli esseri viventi, ha un valore in sé stessa, di esistenza, di vita, di bellezza e di interdipendenza con le altre creature. Noi cristiani, insieme alle altre religioni monoteiste, crediamo che l’universo proviene da una decisione d’amore del Creatore, che permette all’uomo di servirsi rispettosamente della creazione per il bene dei suoi simili e per la gloria del Creatore, senza però abusarne e tanto meno essendo autorizzato a distruggerla. Per tutte le credenze religiose l’ambiente è un bene fondamentale (cfr ibid., 81). 

L’abuso e la distruzione dell’ambiente, allo stesso tempo, sono associati ad un inarrestabile processo di esclusione. In effetti, una brama egoistica e illimitata di potere e di benessere materiale, conduce tanto ad abusare dei mezzi materiali disponibili quanto ad escludere i deboli e i meno abili, sia per il fatto di avere abilità diverse (portatori di handicap), sia perché sono privi delle conoscenze e degli strumenti tecnici adeguati o possiedono un’insufficiente capacità di decisione politica. L’esclusione economica e sociale è una negazione totale della fraternità umana e un gravissimo attentato ai diritti umani e all’ambiente. I più poveri sono quelli che soffrono maggiormente questi attentati per un triplice, grave motivo: sono scartati dalla società, sono nel medesimo tempo obbligati a vivere di scarti e devono soffrire ingiustamente le conseguenze dell’abuso dell’ambiente. Questi fenomeni costituiscono oggi la tanto diffusa e incoscientemente consolidata “cultura dello scarto”. 

La drammaticità di tutta questa situazione di esclusione e di inequità, con le sue chiare conseguenze, mi porta, insieme a tutto il popolo cristiano e a tanti altri, a prendere coscienza anche della mia grave responsabilità al riguardo, per cui alzo la mia voce, insieme a quella di tutti coloro che aspirano a soluzioni urgenti ed efficaci. L’adozione dell’ “Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile” durante ilVertice mondiale che inizierà oggi stesso, è un importante segno di speranza. Confido anche che la Conferenza di Parigi sul cambiamento climatico raggiunga accordi fondamentali ed effettivi. 

Non sono sufficienti, tuttavia, gli impegni assunti solennemente, anche quando costituiscono un passo necessario verso la soluzione dei problemi. La definizione classica di giustizia alla quale ho fatto riferimento anteriormente contiene come elemento essenziale una volontà costante e perpetua: Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi. Il mondo chiede con forza a tutti i governanti una volontà effettiva, pratica, costante, fatta di passi concreti e di misure immediate, per preservare e migliorare l’ambiente naturale e vincere quanto prima il fenomeno dell’esclusione sociale ed economica, con le sue tristi conseguenze di tratta degli esseri umani, commercio di organi e tessuti umani, sfruttamento sessuale di bambini e bambine, lavoro schiavizzato, compresa la prostituzione, traffico di droghe e di armi, terrorismo e crimine internazionale organizzato. È tale l’ordine di grandezza di queste situazioni e il numero di vite innocenti coinvolte, che dobbiamo evitare qualsiasi tentazione di cadere in un nominalismo declamatorio con effetto tranquillizzante sulle coscienze. Dobbiamo aver cura che le nostre istituzioni siano realmente efficaci nella lotta contro tutti questi flagelli. 

La molteplicità e complessità dei problemi richiede di avvalersi di strumenti tecnici di misurazione. Questo, però, comporta un duplice pericolo: limitarsi all’esercizio burocratico di redigere lunghe enumerazioni di buoni propositi – mete, obiettivi e indicatori statistici –, o credere che un’unica soluzione teorica e aprioristica darà risposta a tutte le sfide. Non bisogna perdere di vista, in nessun momento, che l’azione politica ed economica, è efficace solo quando è concepita come un’attività prudenziale, guidata da un concetto perenne di giustizia e che tiene sempre presente che, prima e aldilà di piani e programmi, ci sono donne e uomini concreti, uguali ai governanti, che vivono, lottano e soffrono, e che molte volte si vedono obbligati a vivere miseramente, privati di qualsiasi diritto. 

Affinché questi uomini e donne concreti possano sottrarsi alla povertà estrema, bisogna consentire loro di essere degni attori del loro stesso destino. Lo sviluppo umano integrale e il pieno esercizio della dignità umana non possono essere imposti. Devono essere costruiti e realizzati da ciascuno, da ciascuna famiglia, in comunione con gli altri esseri umani e in una giusta relazione con tutti gli ambienti nei quali si sviluppa la socialità umana – amici, comunità, villaggi e comuni, scuole, imprese e sindacati, province, nazioni, ecc. Questo suppone ed esige il diritto all’istruzione – anche per le bambine (escluse in alcuni luoghi) – che si assicura in primo luogo rispettando e rafforzando il diritto primario della famiglia a educare e il diritto delle Chiese e delle altre aggregazioni sociali a sostenere e collaborare con le famiglie nell’educazione delle loro figlie e dei loro figli. L’educazione, così concepita, è la base per la realizzazione dell’Agenda 2030 e per il risanamento dell’ambiente. 

Al tempo stesso, i governanti devono fare tutto il possibile affinché tutti possano disporre della base minima materiale e spirituale per rendere effettiva la loro dignità e per formare e mantenere una famiglia, che è la cellula primaria di qualsiasi sviluppo sociale. Questo minimo assoluto, a livello materiale ha tre nomi: casa, lavoro e terra; e un nome a livello spirituale: libertà dello spirito, che comprende la libertà religiosa, il diritto all’educazione e gli altri diritti civili. 

Per tutte queste ragioni, la misura e l’indicatore più semplice e adeguato dell’adempimento della nuova Agenda per lo sviluppo sarà l’accesso effettivo, pratico e immeditato, per tutti, ai beni materiali e spirituali indispensabili: abitazione propria, lavoro dignitoso e debitamente remunerato, alimentazione adeguata e acqua potabile; libertà religiosa e, più in generale, libertà dello spirito ed educazione. Nello stesso tempo, questi pilastri dello sviluppo umano integrale hanno un fondamento comune, che è il diritto alla vita, e, in senso ancora più ampio, quello che potremmo chiamare il diritto all’esistenza della stessa natura umana. 

La crisi ecologica, insieme alla distruzione di buona parte della biodiversità, può mettere in pericolo l’esistenza stessa della specie umana. Le nefaste conseguenze di un irresponsabile malgoverno dell’economia mondiale, guidato unicamente dall’ambizione di guadagno e di potere, devono costituire un appello a una severa riflessione sull’uomo: «L’uomo non si crea da solo. È spirito e volontà, però anche natura» (BENEDETTO XVI, Discorso al Parlamento della Repubblica Federale di Germania, 22 settembre 2011; citato in Enc. Laudato sì, 6). La creazione si vede pregiudicata «dove noi stessi siamo l’ultima istanza [...]. E lo spreco della creazione inizia dove non riconosciamo più alcuna istanza sopra di noi, ma vediamo soltanto noi stessi» (ID., Incontro con il Clero della Diocesi di Bolzano-Bressanone, 6agosto 2008, citato ibid.). Perciò, la difesa dell’ambiente e la lotta contro l’esclusione esigono il riconoscimento di una legge morale inscritta nella stessa natura umana, che comprende la distinzione naturale tra uomo e donna (cfr Enc. Laudato sì, 155) e il rispetto assoluto della vita in tutte le sue fasi e dimensioni (cfr ibid., 123; 136).

Senza il riconoscimento di alcuni limiti etici naturali insormontabili e senza l’immediata attuazione di quei pilastri dello sviluppo umano integrale, l’ideale di «salvare le future generazioni dal flagello della guerra» (Carta delle Nazioni Unite, Preambolo) e di «promuovere il progresso sociale e un più elevato livello di vita all’interno di una più ampia libertà» (ibid.) corre il rischio di diventare un miraggio irraggiungibile o, peggio ancora, parole vuote che servono come scusa per qualsiasi abuso e corruzione, o per promuovere una colonizzazione ideologica mediante l’imposizione di modelli e stili di vita anomali estranei all’identità dei popoli e, in ultima analisi, irresponsabili. La guerra è la negazione di tutti i diritti e una drammatica aggressione all’ambiente. Se si vuole un autentico sviluppo umano integrale per tutti, occorre proseguire senza stancarsi nell’impegno di evitare la guerra tra le nazioni e tra i popoli. 

A tal fine bisogna assicurare il dominio incontrastato del diritto e l’infaticabile ricorso al negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato, come proposto dalla Carta delle Nazioni Unite, vera norma giuridica fondamentale. L’esperienza dei 70 anni di esistenza delle Nazioni Unite, in generale, e in particolare l’esperienza dei primi 15 anni del terzo millennio, mostrano tanto l’efficacia della piena applicazione delle norme internazionali come l’inefficacia del loro mancato adempimento. Se si rispetta e si applica la Carta delle Nazioni Unite con trasparenza e sincerità, senza secondi fini, come un punto di riferimento obbligatorio di giustizia e non come uno strumento per mascherare intenzioni ambigue, si ottengono risultati di pace. Quando, al contrario, si confonde la norma con un semplice strumento da utilizzare quando risulta favorevole e da eludere quando non lo è, si apre un vero vaso di Pandora di forze incontrollabili, che danneggiano gravemente le popolazioni inermi, l’ambiente culturale, e anche l’ambiente biologico. 

Il Preambolo e il primo articolo della Carta delle Nazioni Unite indicano le fondamenta della costruzione giuridica internazionale: la pace, la soluzione pacifica delle controversie e lo sviluppo delle relazioni amichevoli tra le nazioni. Contrasta fortemente con queste affermazioni, e le nega nella pratica, la tendenza sempre presente alla proliferazione delle armi, specialmente quelle di distruzione di massa come possono essere quelle nucleari. Un’etica e un diritto basati sulla minaccia della distruzione reciproca – e potenzialmente di tutta l’umanità – sono contraddittori e costituiscono una frode verso tutta la costruzione delle Nazioni Unite, che diventerebbero “Nazioni unite dalla paura e dalla sfiducia”. Occorre impegnarsi per un mondo senza armi nucleari, applicando pienamente il Trattato di non proliferazione, nella lettera e nello spirito, verso una totale proibizione di questi strumenti. Il recente accordo sulla questione nucleare in una regione sensibile dell’Asia e del Medio Oriente, è una prova delle possibilità della buona volontà politica e del diritto, coltivati con sincerità, pazienza e costanza. Formulo i miei voti perché questo accordo sia duraturo ed efficace e dia i frutti sperati con la collaborazione di tutte le parti coinvolte. 

In tal senso, non mancano gravi prove delle conseguenze negative di interventi politici e militari non coordinati tra i membri della comunità internazionale. Per questo, seppure desiderando di non avere la necessità di farlo, non posso non reiterare i miei ripetuti appelli in relazione alla dolorosa situazione di tutto il Medio Oriente, del Nord Africa e di altri Paesi africani, dove i cristiani, insieme ad altri gruppi culturali o etnici e anche con quella parte dei membri della religione maggioritaria che non vuole lasciarsi coinvolgere dall’odio e dalla pazzia, sono stati obbligati ad essere testimoni della distruzione dei loro luoghi di culto, del loro patrimonio culturale e religioso, delle loro case ed averi e sono stati posti nell’alternativa di fuggire o di pagare l’adesione al bene e alla pace con la loro stessa vita o con la schiavitù. 

Queste realtà devono costituire un serio appello ad un esame di coscienza di coloro che hanno la responsabilità della conduzione degli affari internazionali. Non solo nei casi di persecuzione religiosa o culturale, ma in ogni situazione di conflitto, come in Ucraina, in Siria, in Iraq, in Libia, nel Sud-Sudan e nella regione dei Grandi Laghi, prima degli interessi di parte, pur se legittimi, ci sono volti concreti. Nelle guerre e nei conflitti ci sono persone, nostri fratelli e sorelle, uomini e donne, giovani e anziani, bambini ebambine che piangono, soffrono e muoiono. Esseri umani che diventano materiale di scarto mentre non si fa altro che enumerare problemi, strategie e discussioni. Come ho chiesto al Segretario Generale delle Nazioni Unite nella mia lettera del 9 agosto 2014, «la più elementare comprensione della dignità umana [obbliga] la comunità internazionale, in particolare attraverso le norme e i meccanismi del diritto internazionale, a fare tutto il possibile per fermare e prevenire ulteriori sistematiche violenze contro le minoranze etniche e religiose» e per proteggere le popolazioni innocenti. 

In questa medesima linea vorrei citare un altro tipo di conflittualità, non sempre così esplicitata ma che silenziosamente comporta la morte di milioni di persone. Molte delle nostre società vivono un altro tipo di guerra con il fenomeno del narcotraffico. Una guerra “sopportata” e debolmente combattuta. Il narcotraffico per sua stessa natura si accompagna alla tratta delle persone, al riciclaggio di denaro, al traffico di armi, allo sfruttamento infantile e al altre forme di corruzione. Corruzione che è penetrata nei diversi livelli della vita sociale, politica, militare, artistica e religiosa, generando, in molti casi, una struttura parallela che mette in pericolo la credibilità delle nostre istituzioni. 

Ho iniziato questo intervento ricordando le visite dei miei predecessori. Ora vorrei, in modo particolare, che le mie parole fossero come una continuazione delle parole finali del discorso di Paolo VI, pronunciate quasi esattamente 50 anni or sono, ma di perenne valore. «È l’ora in cui si impone una sosta, un momento di raccoglimento, di ripensamento, quasi di preghiera: ripensare, cioè, alla nostra comune origine, alla nostra storia, al nostro destino comune. Mai come oggi [...] si è reso necessario l’appello alla coscienza morale dell’uomo [poiché] il pericolo non viene né dal progresso né dalla scienza: questi, se bene usati, potranno anzi risolvere molti dei gravi problemi che assillano l’umanità» (Discorso ai Rappresentanti degli Stati, 4 ottobre 1965). Tra le altre cose, senza dubbio, la genialità umana, ben applicata, aiuterà a risolvere le gravi sfide del degrado ecologico e dell’esclusione. Proseguo con le parole di Paolo VI: «Il pericolo vero sta nell’uomo, padrone di sempre più potenti strumenti, atti alla rovina ed alle più alte conquiste!» (ibid.). 

La casa comune di tutti gli uomini deve continuare a sorgere su una retta comprensione della fraternità universale e sul rispetto della sacralità di ciascuna vita umana, di ciascun uomo e di ciascuna donna; dei poveri, degli anziani, dei bambini, degli ammalati, dei non nati, dei disoccupati, degli abbandonati, di quelli che vengono giudicati scartabili perché li si considera nient’altro che numeri di questa o quella statistica. La casa comune di tutti gli uomini deve edificarsi anche sulla comprensione di una certa sacralità della natura creata. 

Tale comprensione e rispetto esigono un grado superiore di saggezza, che accetti la trascendenza, rinunci alla costruzione di una élite onnipotente e comprenda che il senso pieno della vita individuale e collettiva si trova nel servizio disinteressato verso gli altri e nell’uso prudente e rispettoso della creazione, per il bene comune . Ripetendo le parole di Paolo VI, «l’edificio della moderna civiltà deve reggersi su principii spirituali, capaci non solo di sostenerlo, ma altresì di illuminarlo e di animarlo» (ibid.). Il Gaucho Martin Fierro, un classico della letteratura della mia terra natale, canta: “I fratelli siano uniti perché questa è la prima legge. Abbiano una vera unione in qualsiasi tempo, perché se litigano tra di loro li divoreranno quelli di fuori”. 

Il mondo contemporaneo apparentemente connesso, sperimenta una crescente e consistente e continua frammentazione sociale che pone in pericolo «ogni fondamento della vita sociale» e pertanto «finisce col metterci l’uno contro l’altro per difendere i propri interessi» (Enc. Laudato sì, 229). 

Il tempo presente ci invita a privilegiare azioni che possano generare nuovi dinamismi nella società e che portino frutto in importanti e positivi avvenimenti storici (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 223). Non possiamo permetterci di rimandare “alcune agende” al futuro. Il futuro ci chiede decisioni critiche e globali di fronte ai conflitti mondiali che aumentano il numero degli esclusi e dei bisognosi. 

La lodevole costruzione giuridica internazionale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e di tutte le sue realizzazioni, migliorabile come qualunque altra opera umana e, al tempo stesso, necessaria, può essere pegno di un futuro sicuro e felice per le generazioni future. Lo sarà se i rappresentanti degli Stati sapranno mettere da parte interessi settoriali e ideologie e cercare sinceramente il servizio del bene comune. Chiedo a Dio Onnipotente che sia così, e vi assicuro il mio appoggio, la mia preghiera e l’appoggio e le preghiere di tutti i fedeli della Chiesa Cattolica, affinché questa Istituzione, tutti i suoi Stati membri e ciascuno dei suoi funzionari, renda sempre un servizio efficace all’umanità, un servizio rispettoso della diversità e che sappia potenziare, per il bene comune, il meglio di ciascun popolo e di ciascun cittadino. 

La benedizione dell’Altissimo, la pace e la prosperità a tutti voi e a tutti i vostri popoli. Grazie"



venerdì 25 settembre 2015

IL DISCORSO DI PAPA FRANCESCO AL CONGRESSO DEGLI STATI UNITI

"Signor Vicepresidente, Signor Presidente della Camera dei Rappresentanti, Onorevoli Membri del Congresso, Cari Amici, Sono molto grato per il vostro invito a rivolgermi a questa Assemblea Plenaria del Congresso nella “terra dei liberi e casa dei valorosi”. Mi piace pensare che la ragione di ciò sia il fatto che io pure sono un figlio di questo grande continente, da cui tutti noi abbiamo ricevuto tanto e verso il quale condividiamo una comune responsabilità. Ogni figlio o figlia di una determinata nazione ha una missione, una responsabilità personale e sociale.

La vostra propria responsabilità come membri del Congresso è di permettere a questo Paese, grazie alla vostra attività legislativa, di crescere come nazione. Voi siete il volto di questo popolo, i suoi rappresentanti. Voi siete chiamati a salvaguardare e a garantire la dignità dei vostri concittadini nell’instancabile ed esigente perseguimento del bene comune, che è il fine di ogni politica. Una società politica dura nel tempo quando si sforza, come vocazione, di soddisfare i bisogni comuni stimolando la crescita di tutti i suoi membri, specialmente quelli in situazione di maggiore vulnerabilità o rischio. L’attività legislativa è sempre basata sulla cura delle persone. A questo siete stati invitati, chiamati e convocati da coloro che vi hanno eletto. Il vostro è un lavoro che mi fa riflettere sulla figura di Mosè, per due aspetti. Da una parte il patriarca e legislatore del popolo d’Israele simbolizza il bisogno dei popoli di mantenere vivo il loro senso di unità con gli strumenti di una giusta legislazione. Dall’altra, la figura di Mosè ci conduce direttamente a Dio e quindi alla dignità trascendente dell’essere umano. Mosè ci offre una buona sintesi del vostro lavoro: a voi viene richiesto di proteggere, con gli strumenti della legge, l’immagine e la somiglianza modellate da Dio su ogni volto umano. Oggi vorrei rivolgermi non solo a voi, ma, attraverso di voi, all’intero popolo degli Stati Uniti.

Qui, insieme con i suoi rappresentanti, vorrei cogliere questa opportunità per dialogare con le molte migliaia di uomini e di donne che si sforzano quotidianamente di fare un’onesta giornata di lavoro, di portare a casa il pane quotidiano, di risparmiare qualche soldo e – un passo alla volta – di costruire una vita migliore per le proprie famiglie. Sono uomini e donne che non si preoccupano semplicemente di pagare le tasse, ma, nel modo discreto che li caratterizza, sostengono la vita della società. Generano solidarietà con le loro attività e creano organizzazioni che danno una mano a chi ha più bisogno. Vorrei anche entrare in dialogo con le numerose persone anziane che sono un deposito di saggezza forgiata dall’esperienza e che cercano in molti modi, specialmente attraverso il lavoro volontario, di condividere le loro storie e le loro esperienze. So che molti di loro sono pensionati, ma ancora attivi, e continuano a darsi da fare per costruire questo Paese. Desidero anche dialogare con tutti quei giovani che si impegnano per realizzare le loro grandi e nobili aspirazioni, che non sono sviati da proposte superficiali e che affrontano situazioni difficili, spesso come risultato dell’immaturità di tanti adulti.

Vorrei dialogare con tutti voi, e desidero farlo attraverso la memoria storica del vostro popolo. La mia visita capita in un momento in cui uomini e donne di buona volontà stanno celebrando gli anniversari di alcuni grandi Americani. Nonostante la complessità della storia e la realtà della debolezza umana, questi uomini e donne, con tutte le loro differenze e i loro limiti, sono stati capaci con duro lavoro e sacrificio personale – alcuni a costo della propria vita – di costruire un futuro migliore. Hanno dato forma a valori fondamentali che resteranno per sempre nello spirito del popolo americano. Un popolo con questo spirito può attraversare molte crisi, tensioni e conflitti, mentre sempre sarà in grado di trovare la forza per andare avanti e farlo con dignità. Questi uomini e donne ci offrono una possibilità di guardare e di interpretare la realtà. Nell’onorare la loro memoria, siamo stimolati, anche in mezzo a conflitti, nella concretezza del vivere quotidiano, ad attingere dalle nostre più profonde riserve culturali. Vorrei menzionare quattro di questi Americani: Abraham Lincoln, Martin Luther King, Dorothy Day e Thomas Merton.

Quest’anno ricorre il centocinquantesimo anniversario dell’assassinio del Presidente Abraham Lincoln, il custode della libertà, che ha instancabilmente lavorato perché “questa nazione, con la protezione di Dio, potesse avere una nuova nascita di libertà”. Costruire un futuro di libertà richiede amore per il bene comune e collaborazione in uno spirito di sussidiarietà e solidarietà. Siamo tutti pienamente consapevoli, ed anche profondamente preoccupati, per la inquietante l’odierna situazione sociale e politica del mondo. Il nostro mondo è sempre più un luogo di violenti conflitti, odi e brutali atrocità, commesse perfino in nome di Dio e della religione. Sappiamo che nessuna religione è immune da forme di inganno individuale o estremismo ideologico. Questo significa che dobbiamo essere particolarmente attenti ad ogni forma di fondamentalismo, tanto religioso come di ogni altro genere. È necessario un delicato equilibrio per combattere la violenza perpetrata nel nome di una religione, di un’ideologia o di un sistema economico, mentre si salvaguarda allo stesso tempo la libertà religiosa, la libertà intellettuale e le libertà individuali.

Ma c’è un’altra tentazione da cui dobbiamo guardarci: il semplicistico riduzionismo che vede solo bene o male, o, se preferite, giusti e peccatori. Il mondo contemporaneo, con le sue ferite aperte che toccano tanti dei nostri fratelli e sorelle, richiede che affrontiamo ogni forma di polarizzazione che potrebbe dividerlo tra questi due campi. Sappiamo che nel tentativo di essere liberati dal nemico esterno, possiamo essere tentati di alimentare il nemico interno. Imitare l’odio e la violenza dei tiranni e degli assassini è il modo migliore di prendere il loro posto. Questo è qualcosa che voi, come popolo, rifiutate. La nostra, invece, dev’essere una risposta di speranza e di guarigione, di pace e di giustizia. Ci è chiesto di fare appello al coraggio e all’intelligenza per risolvere le molte crisi economiche e geopolitiche di oggi. Perfino in un mondo sviluppato, gli effetti di strutture e azioni ingiuste sono fin troppo evidenti. I nostri sforzi devono puntare a restaurare la pace, rimediare agli errori, mantenere gli impegni, e così promuovere il benessere degli individui e dei popoli. Dobbiamo andare avanti insieme, come uno solo, in uno spirito rinnovato di fraternità e di solidarietà, collaborando generosamente per il bene comune. Le sfide che oggi affrontiamo, richiedono un rinnovamento di questo spirito di collaborazione, che ha procurato tanto bene nella storia degli Stati Uniti. La complessità, la gravità e l’urgenza di queste sfide esigono che noi impieghiamo le nostre risorse e i nostri talenti, e che ci decidiamo a sostenerci vicendevolmente, con rispetto per le nostre differenze e per le nostre convinzioni di coscienza.

In questa terra, le varie denominazioni religiose hanno contribuito grandemente a costruire e a rafforzare la società. È importante che oggi, come nel passato, la voce della fede continui ad essere ascoltata, perché è una voce di fraternità e di amore, che cerca di far emergere il meglio in ogni persona e in ogni società. Tale cooperazione è una potente risorsa nella battaglia per eliminare le nuove forme globali di schiavitù, nate da gravi ingiustizie le quali possono essere superate solo grazie a nuove politiche e a nuove forme di consenso sociale. Penso qui alla storia politica degli Stati Uniti, dove la democrazia è profondamente radicata nello spirito del popolo americano. Qualsiasi attività politica deve servire e promuovere il bene della persona umana ed essere basata sul rispetto per la dignità di ciascuno. “Consideriamo queste verità come per sé evidenti, cioè che tutti gli uomini sono creati uguali, che sono dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, che tra questi ci sono la vita, la libertà e il perseguimento della felicità” (Dichiarazione di Indipendenza, 4 luglio 1776). Se la politica dev’essere veramente al servizio della persona umana, ne consegue che non può essere sottomessa al servizio dell’economia e della finanza. Politica è, invece, espressione del nostro insopprimibile bisogno di vivere insieme in unità, per poter costruire uniti il più grande bene comune: quello di una comunità che sacrifichi gli interessi particolari per poter condividere, nella giustizia e nella pace, i suoi benefici, i suoi interessi, la sua vita sociale. Non sottovaluto le difficoltà che questo comporta, ma vi incoraggio in questo sforzo.

Penso anche alla marcia che Martin Luther King ha guidato da Selma a Montgomery cinquant’anni fa come parte della campagna per conseguire il suo “sogno” di pieni diritti civili e politici per gli Afro-Americani. Quel sogno continua ad ispirarci. Mi rallegro che l’America continui ad essere, per molti, una terra di “sogni”. Sogni che conducono all’azione, alla partecipazione, all’impegno. Sogni che risvegliano ciò che di più profondo e di più vero si trova nella vita delle persone. Negli ultimi secoli, milioni di persone sono giunte in questa terra per rincorrere il proprio sogno di costruire un futuro in libertà. Noi, gente di questo continente, non abbiamo paura degli stranieri, perché molti di noi una volta eravamo stranieri. Vi dico questo come figlio di immigrati, sapendo che anche tanti di voi sono discendenti di immigrati. Tragicamente, i diritti di quelli che erano qui molto prima di noi non sono stati sempre rispettati. Per quei popoli e le loro nazioni, dal cuore della democrazia americana, desidero riaffermare la mia più profonda stima e considerazione. Quei primi contatti sono stati spesso turbolenti e violenti, ma è difficile giudicare il passato con i criteri del presente. Tuttavia, quando lo straniero in mezzo a noi ci interpella, non dobbiamo ripetere i peccati e gli errori del passato. Dobbiamo decidere ora di vivere il più nobilmente e giustamente possibile, così come educhiamo le nuove generazioni a non voltare le spalle al loro “prossimo” e a tutto quanto ci circonda. Costruire una nazione ci chiede di riconoscere che dobbiamo costantemente relazionarci agli altri, rifiutando una mentalità di ostilità per poterne adottare una di reciproca sussidiarietà, in uno sforzo costante di fare del nostro meglio. Ho fiducia che possiamo farlo.

Il nostro mondo sta fronteggiando una crisi di rifugiati di proporzioni tali che non si vedevano dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Questa realtà ci pone davanti grandi sfide e molte dure decisioni. Anche in questo continente, migliaia di persone sono spinte a viaggiare verso il Nord in cerca di migliori opportunità. Non è ciò che volevamo per i nostri figli? Non dobbiamo lasciarci spaventare dal loro numero, ma piuttosto vederle come persone, guardando i loro volti e ascoltando le loro storie, tentando di rispondere meglio che possiamo alle loro situazioni. Rispondere in un modo che sia sempre umano, giusto e fraterno. Dobbiamo evitare una tentazione oggi comune: scartare chiunque si dimostri problematico. Ricordiamo la Regola d’Oro: «Fai agli altri ciò che vorresti che gli altri facessero a te» (Mt 7,12). Questa norma ci indica una chiara direzione. Trattiamo gli altri con la medesima passione e compassione con cui vorremmo essere trattati. Cerchiamo per gli altri le stesse possibilità che cerchiamo per noi stessi. Aiutiamo gli altri a crescere, come vorremmo essere aiutati noi stessi. In una parola, se vogliamo sicurezza, diamo sicurezza; se vogliamo vita, diamo vita; se vogliamo opportunità, provvediamo opportunità. La misura che usiamo per gli altri sarà la misura che il tempo userà per noi.

La Regola d’Oro ci mette anche di fronte alla nostra responsabilità di proteggere e difendere la vita umana in ogni fase del suo sviluppo. Questa convinzione mi ha portato, fin dall’inizio del mio ministero, a sostenere a vari livelli l’abolizione globale della pena di morte. Sono convinto che questa sia la via migliore, dal momento che ogni vita è sacra, ogni persona umana è dotata di una inalienabile dignità, e la società può solo beneficiare dalla riabilitazione di coloro che sono condannati per crimini. Recentemente i miei fratelli Vescovi qui negli Stati Uniti hanno rinnovato il loro appello per l’abolizione della pena di morte. Io non solo li appoggio, ma offro anche sostegno a tutti coloro che sono convinti che una giusta e necessaria punizione non deve mai escludere la dimensione della speranza e l’obiettivo della riabilitazione. In questi tempi in cui le preoccupazioni sociali sono così importanti, non posso mancare di menzionare la serva di Dio Dorothy Day, che ha fondato il Catholic Worker Movement. Il suo impegno sociale, la sua passione per la giustizia e per la causa degli oppressi, erano ispirati dal Vangelo, dalla sua fede e dall’esempio dei santi.

Quanto cammino è stato fatto in questo campo in tante parti del mondo! Quanto è stato fatto in questi primi anni del terzo millennio per far uscire la gente dalla povertà estrema! So che voi condividete la mia convinzione che va fatto ancora molto di più, e che in tempi di crisi e di difficoltà economica non si deve perdere lo spirito di solidarietà globale. Allo stesso tempo desidero incoraggiarvi a non dimenticare tutte quelle persone intorno a noi, intrappolate nel cerchio della povertà. Anche a loro c’è bisogno di dare speranza. La lotta contro la povertà e la fame dev’essere combattuta costantemente su molti fronti, specialmente nelle sue cause. So che molti americani oggi, come in passato, stanno lavorando per affrontare questo problema. Va da sé che parte di questo grande sforzo sta nella creazione e distribuzione della ricchezza. Il corretto uso delle risorse naturali, l’appropriata applicazione della tecnologia e la capacità di ben orientare lo spirito imprenditoriale, sono elementi essenziali di un’economia che cerca di essere moderna, inclusiva e sostenibile.

«L’attività imprenditoriale, che è una nobile vocazione, orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti, può essere un modo molto fecondo per promuovere la regione in cui colloca le sue attività, soprattutto se comprende che la creazione di posti di lavoro è parte imprescindibile del suo servizio al bene comune» (Enc. Laudato si’, 129). Questo bene comune include anche la terra, tema centrale dell’Enciclica che ho recentemente scritto, per «entrare in dialogo con tutti riguardo alla nostra casa comune» (ibid., 3). «Abbiamo bisogno di un confronto che ci unisca tutti, perché la sfida ambientale che viviamo, e le sue radici umane, ci riguardano e ci toccano tutti» (ibid., 14). Nell’Enciclica Laudato si’ esorto ad uno sforzo coraggioso e responsabile per «cambiare rotta» (ibid., 61) ed evitare gli effetti più seri del degrado ambientale causato dall’attività umana. Sono convinto che possiamo fare la differenza e non ho dubbi che gli Stati Uniti - e questo Congresso – hanno un ruolo importante da giocare. Ora è il momento di azioni coraggiose e strategie dirette a implementare una «cultura della cura» (ibid., 231) e «un approccio integrale per combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura della natura» (ibid., 139). Abbiamo la libertà necessaria per limitare e orientare la tecnologia (cfr ibid., 112), per individuare modi intelligenti di «orientare, coltivare e limitare il nostro potere» (ibid., 78) e mettere la tecnologia «al servizio di un altro tipo di progresso, più sano, più umano, più sociale e più integrale» (ibid., 112). Al riguardo, ho fiducia che le istituzioni americane di ricerca e accademiche potranno dare un contributo vitale negli anni a venire.

Un secolo fa, all’inizio della Grande Guerra, che il Papa Benedetto XV definì “inutile strage”, nasceva un altro straordinario Americano: il monaco cistercense Thomas Merton. Egli resta una fonte di ispirazione spirituale e una guida per molte persone. Nella sua autobiografia scrisse: “Sono venuto nel mondo. Libero per natura, immagine di Dio, ero tuttavia prigioniero della mia stessa violenza e del mio egoismo, a immagine del mondo in cui ero nato. Quel mondo era il ritratto dell’Inferno, pieno di uomini come me, che amano Dio, eppure lo odiano; nati per amarlo, ma che vivono nella paura di disperati e contradittori desideri”. Merton era anzitutto uomo di preghiera, un pensatore che ha sfidato le certezze di questo tempo e ha aperto nuovi orizzonti per le anime e per la Chiesa. Egli fu anche uomo di dialogo, un promotore di pace tra popoli e religioni. In questa prospettiva di dialogo, vorrei riconoscere gli sforzi fatti nei mesi recenti per cercare di superare le storiche differenze legate a dolorosi episodi del passato. È mio dovere costruire ponti e aiutare ogni uomo e donna, in ogni possibile modo, a fare lo stesso. Quando nazioni che erano state in disaccordo riprendono la via del dialogo – un dialogo che potrebbe essere stato interrotto per le ragioni più valide – nuove opportunità si aprono per tutti. Questo ha richiesto, e richiede, coraggio e audacia, che non vuol dire irresponsabilità. Un buon leader politico è uno che, tenendo presenti gli interessi di tutti, coglie il momento con spirito di apertura e senso pratico. Un buon leader politico opta sempre per «iniziare processi più che possedere spazi» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 222-223).

Essere al servizio del dialogo e della pace significa anche essere veramente determinati a ridurre e, nel lungo termine, a porre fine ai molti conflitti armati in tutto il mondo. Qui dobbiamo chiederci: perché armi mortali sono vendute a coloro che pianificano di infliggere indicibili sofferenze a individui e società? Purtroppo, la risposta, come tutti sappiamo, è semplicemente per denaro: denaro che è intriso di sangue, spesso del sangue innocente. Davanti a questo vergognoso e colpevole silenzio, è nostro dovere affrontare il problema e fermare il commercio di armi. Tre figli e una figlia di questa terra, quattro individui e quattro sogni: Lincoln, libertà; Martin Luther King, libertà nella pluralità e non-esclusione; Dorothy Day, giustizia sociale e diritti delle persone; e Thomas Merton, capacità di dialogo e di apertura a Dio. Quattro rappresentanti del Popolo americano. Terminerò la mia visita nella vostra terra a Filadelfia, dove prenderò parte all’Incontro Mondiale delle Famiglie. È mio desiderio che durante tutta la mia visita la famiglia sia un tema ricorrente. Quanto essenziale è stata la famiglia nella costruzione di questo Paese! E quanto merita ancora il nostro sostegno e il nostro incoraggiamento! Eppure non posso nascondere la mia preoccupazione per la famiglia, che è minacciata, forse come mai in precedenza, dall’interno e dall’esterno. Relazioni fondamentali sono state messe in discussione, come anche la base stessa del matrimonio e della famiglia. Io posso solo riproporre l’importanza e, soprattutto, la ricchezza e la bellezza della vita familiare.


In particolare, vorrei richiamare l’attenzione su quei membri della famiglia che sono i più vulnerabili, i giovani. Per molti di loro si profila un futuro pieno di tante possibilità, ma molti altri sembrano disorientati e senza meta, intrappolati in un labirinto senza speranza, segnato da violenze, abusi e disperazione. I loro problemi sono i nostri problemi. Non possiamo evitarli. È necessario affrontarli insieme, parlarne e cercare soluzioni efficaci piuttosto che restare impantanati nelle discussioni. A rischio di banalizzare, potremmo dire che viviamo in una cultura che spinge i giovani a non formare una famiglia, perché mancano loro possibilità per il futuro. Ma questa stessa cultura presenta ad altri così tante opzioni che anch’essi sono dissuasi dal formare una famiglia. Una nazione può essere considerata grande quando difende la libertà, come ha fatto Lincoln; quando promuove una cultura che consenta alla gente di “sognare” pieni diritti per tutti i propri fratelli e sorelle, come Martin Luther King ha cercato di fare; quando lotta per la giustizia e la causa degli oppressi, come Dorothy Day ha fatto con il suo instancabile lavoro, frutto di una fede che diventa dialogo e semina pace nello stile contemplativo di Thomas Merton. In queste note ho cercato di presentare alcune delle ricchezze del vostro patrimonio culturale, dello spirito del popolo americano. Il mio auspicio è che questo spirito continui a svilupparsi e a crescere, in modo che il maggior numero possibile di giovani possa ereditare e dimorare in una terra che ha ispirato così tante persone a sognare. Dio benedica l’America!"


martedì 22 settembre 2015

TRATTOLIBERO, UN GRUPPO DI SCRITTURA CREATIVA FRA MULTILINGUISMO E CREATIVITÀ

Tre le raccolte di racconti prodotte dal gruppo: “I Seminatori di storie”, “Anchora Spero di Meglio” e “Inpaziente attesa”.



Un Tratto unico ma Libero nato da Pordenonelegge

Medici, giornalisti, attori, critici, tesorieri, artisti, studenti. Il tutto mescolato con una grande passione per la scrittura. Cosa potrà mai uscire fuori da un mix del genere? La risposta è semplice: il Trattolibero. Vi starete domandando cosa mai sarà questo Trattolibero, questa parola che rimanda a qualcosa di sconfinato, indipendente e forse anche un po’ anarchico. Di libero, appunto. Ebbene il Trattolibero è un gruppo di scrittura creativa e in quanto tale libera. Una sorta di piccola grande famiglia composta dagli elementi più diversi tra loro che riescono però a creare un’armonia (quasi) perfetta mettendo insieme il genio bizzarro di diverse personalità. Personalità sciolte l’una dall’altra e slegate da catene dogmatiche che vengono così a creare nel loro insieme un Tratto unico, ma Libero. Lo so deve essere una cosa complicata detta così ma è più semplice di quanto sembri: in sostanza siamo undici persone appartenenti a culture, lingue e professioni diverse e fra le più varie che condividono la passione per la scrittura attraverso esperienze, mentalità e opinioni differenti fra loro che però creano un insieme ricco di conoscenze. Da tutto ciò sfociano così fiumi di idee alle volte difficili da domare ma entusiasmanti, come quando cavalchi un’onda e il tuo dovere è solo quello di saperti lasciare trasportare senza avere la presunzione di dominare: “Quant’è bella giovinezza,/ che si fugge tuttavia!/ Chi vuol essere lieto sia:/ di doman non c’è certezza” direbbe Gianfranco - il critico del gruppo, colui che legge ogni nostro progetto in cantiere verso il successo e la fama di scrittori affermati dispensando critiche e consigli degni di un lettore incallito – citando un certo Lorenzo De’ Medici.

Ecco, il Trattolibero è nato così, da un insieme di idee piccole come gocce che però poi sono diventate un fiume in piena. Un fiume le cui sorgenti sono undici menti originali e uniche nel loro genere che si sono incontrate nel marzo del 2011 grazie al corso di scrittura creativa organizzato da Pordenonelegge in collaborazione con il Consorzio Universitario di Pordenone: un vero e proprio Laboratorio sulla Narrazione guidato dai curatori di pordenonelegge.it – il consueto festival del libro che anima la nostra città nel mese di settembre – Gian Mario Villalta e Alberto Garlini, dispensatori di dritte e consigli su come modellare fino alla perfezione il talento e la passione per la scrittura per poi - chissà - scrivere un giorno un romanzo di successo. Le prime gocce a comporre questo fiume sono state le numerose serie di esercizi che i nostri maestri ci assegnavano per casa, come dei veri e propri scolaretti alle prese con tabelline e poesie da imparare: leggevamo in classe i nostri racconti portando alla luce il nostro modo di scrivere, il nostro stile, la nostra personalità. Abbiamo così iniziato a conoscerci, a darci consigli a vicenda e anche a criticarci quando necessario: e proprio le critiche sono gli aspetti che uno scrittore apprezza di più, perché esce da sé stesso, dal suo punto di vista e dal suo egoismo – perché diciamocelo, chi ama scrivere è anche almeno un po’ permaloso e geloso del proprio lavoro. Ma questa armonia non andava persa e così, una volta terminate le lezioni al corso di scrittura, abbiamo deciso di continuare a incontrarci per poter condividere opinioni, punti di vista, critiche e apprezzamenti sui nostri scritti, i nostri progetti e la nostra comune passione per la parola scritta. Come conferma Anna, che fra un incontro e l’altro del Trattolibero è riuscita anche a diventare mamma per ben due volte: “Succede di passeggiare per il centro di Pordenone e di essere attratto da una locandina con un disegno di Snoopy. E succede che ti ritrovi a leggere di un corso di scrittura creativa, e poi non sai bene come ma ti ritrovi iscritto, al corso, e finisce pure che ci si inventa un dopo, che ci si trova a scrivere insieme, e non sai bene come sia partito il tutto, ma questo è quello a cui si è arrivati. E da cui partiamo…”.

Il Numero Zero: "I Seminatori di storie"

Undici corsari di parole riuniti al Caffè Letterario davanti a un prosecco

Non ci restava che scegliere il nostro covo da corsari di parole, il luogo di ritrovo stabilito che potesse essere espressione dell’identità del gruppo che andava formandosi. Così la scelta è caduta sul Caffè Letterario in Piazza della Motta, nel quale abbiamo avuto il piacere di incontrarci una volta al mese per condividere le nostre idee e che è stato – nel marzo 2012 - teatro della presentazione della nostra prima raccolta di racconti dal titolo “I Seminatori di storie”. Già, perché ad un certo punto ci siamo detti: “Ok, ci incontriamo, parliamo dei nostri racconti e dei nostri progetti, chiacchieriamo serenamente davanti a un prosecco e delle patatine, ma perché non andiamo oltre?”. Idee su idee, gocce su gocce e il nostro fiume cominciava ad ingrossarsi e il Trattolibero cominciava a gattonare. Ecco che abbiamo deciso così di fare un gioco: individuati cinque temi -  #IlRestare, #IlVestitoNero, #AlleCorde, #DonneInnamorate e #IlBivio - abbiamo sorteggiato quattro coppie e un terzetto, dove il primo di ogni coppia ha scritto un racconto a partire dal tema che gli era stato assegnato e il secondo ha tentato di replicare al racconto del primo tenendo fede al tema e cambiando il punto di vista. Ed è così che è nato il Numero Zero del Trattolibero, una raccolta di racconti che ha celebrato il primo compleanno del gruppo e nella quale il piacere di scrivere ci ha portati a mettere nero su bianco una parte di noi, condividendola poi con parenti e amici. Un piccolo successo per chi riesce a creare qualcosa attraverso l’aiuto reciproco, la collaborazione, l’impegno e la passione, per poi trasmettere un messaggio a chi ti guarda dall’esterno. E il messaggio è semplice: scrivere è prima di tutto un piacere e un divertimento, una passione che ha come fine quello di comunicare sé stessi e non quello di diventare per forza romanzieri in cima alle classifiche dei best seller – certo, se un domani qualcuno di noi dovesse riuscirci, champagne per tutti! – ma soprattutto qualcosa che fa bene a sé stessi, come dice Patrizia, buttatasi fra l’altro nell’avventura universitaria con la matematica: “Hai presente quando ti dicono che ingrassare è come mettere una corazza protettiva? Beh, leggere è una corazza ancora più potente. E scrivere è una dieta molto efficace! Trattolibero è stata ed è la mia dieta, il menù che ha sciolto il grasso protettivo e cacciato i radicali liberi. È una freschissima misticanza multilingue dove ognuno ha messo la sua fogliolina raccolta dal cespo personale di idee, pensieri e sentimenti, diversi ma comuni”.


La scrittura come amica e compagna di vita

Con questo spirito il Trattolibero è andato avanti, passando dal gattonare al muovere i primi passi in piedi. Uno spirito mosso essenzialmente dalla scrittura, una sorta di amica e compagna di vita che ha accompagnato molti di noi sin dall’infanzia, come racconta Sabrina: “Sua madre racconta che, da bambina, Sabrina scriveva spesso i suoi pensierini un po’ ovunque, persino sui sacchetti di carta del pane fresco. Poi un giorno, alle scuole elementari, la maestra le assegnò il seguente tema: che cosa vedo quando guardo fuori dalla finestra della mia cameretta. Dallo scenario apparentemente insignificante in cui i suoi familiari scorgevano soltanto un anonimo muro divisorio di cemento, lei trasse una descrizione di otto facciate scritte fitte fitte. E da lì tutto ebbe inizio”. Inutile dire che la piccola Sabrina adesso è diventata una giornalista e riempie pagine e pagine per Il Gazzettino parlando di cronaca, cultura e spettacoli. Ma non è stata solo Sabrina a crescere con carta e penna. Anche Carlos, il nostro dottore sudamericano nativo della splendida Argentina, ha avuto sin da piccolo un rapporto stretto con la scrittura: “Il mio scrivere è una cosa che, dall’infanzia in Patagonia, un maestro, figlio d’italiani mi lasciò come eredità: <<Quel che rimane scritto non è più tuo, è per gli altri, che così possono condividere i tuoi pensieri, i tuoi ricordi, i tuoi sogni e le tue esperienze>>”. Sentir parlare Carlos - magari mentre legge un suo scritto - è sempre qualcosa di affascinante, con il suo accento argentino che inevitabilmente ti porta a navigare con la mente verso quel Sudamerica tanto ricco di bellezza e curiosità. E lo stesso accade quando ascolti l’italiano addolcito e levigato di Rosa María, messicana che si definisce “una tessitrice di racconti che pensa e sente in due lingue” e per la quale “Trattolibero è diventato la bussola che mi guida alla finestra infinita dalla quale guardare il mondo aldilà del visibile e con parole alate far diventare possibile l'impossibile, tangibile l'intangibile, percettibile l'impercettibile e verosimile l'inverosimile, in modo che lo sguardo dei due universi paralleli che veleggiano dentro me coesista con la realtà. Ancora riecheggia alle mie spalle la megalopoli di Città del Messico e allo stesso tempo fluisce in me, come le calme acque di un fiume di poesia, l'Italia gentile che mi ospita. Vedo Trattolibero come la sorgente dalla quale abbeverare con acqua di vita l'erg del mio cuore italomessicano, dolcemente ancorato e coraggiosamente galleggiante tra il vecchio ed il nuovo continente”.



“Anchora Spero di Meglio”: undici racconti su un dettaglio architettonico della nostra città

"Ancora Spero di Meglio - Racconti dell'Architrave" 
Con questa ricchezza culturale abbiamo cercato di fare un passo in più, con l’obiettivo di contribuire a raccontare il nostro territorio, la città in cui viviamo, nella quale siamo nati o che ci ospita da anni. Così abbiamo dato vita ad una seconda raccolta di racconti dal titolo “Anchora Spero di Meglio” - presentata nel febbraio 2013 al PnBox – ispirandoci a un dettaglio architettonico della nostra città: una scritta – Anchora Spero di Meglio - incisa su un’architrave al numero civico 48 di corso Vittorio Emanuele, dove nel 1674 fu costruito un ospizio con annessi chiesa e oratorio e in seguito diventato sede delle prime scuole pubbliche di Pordenone, che ne adottarono l’iscrizione a proprio motto. Una scritta ben visibile e nella quale ci imbattiamo spesso quando passeggiamo per i portici del nostro centro storico ma alla quale probabilmente non facciamo quasi mai caso, presi dai nostri pensieri, dalle vetrine dei negozi o dalla fretta: ecco abbiamo deciso allora di renderla più visibile questa scritta, inserendola in undici racconti ad essa ispirati e che hanno la missione di darle diverse interpretazioni per capire, in fondo, come e perché è importante sperare sempre di meglio nella vita. Abbiamo così dato sfogo alla nostra fantasia, ai nostri sogni e alle nostre speranze, cercando di legare il tutto attraverso questa scritta così bella e viva. In fondo è stato un modo per conoscere ancora di più sé stessi, affidando ancora una volta alle parole scritte l’arduo compito di raccontarsi, come dice la nostra poliedrica organizzatrice Chiara: “La mia vita è un’opera incompiuta come tante. Scriverla? … Perché no!”. A volte scrivere serve a fare il punto della situazione e il quadro della propria vita, ma non è sempre facile. Allora le parole scritte nel silenzio servono a non disperderle nel rumore, a saperle leggere e poi ascoltare. Per chi ama scrivere questo serve anche a sognare e in fondo è quello che cerchiamo di fare noi privilegiati membri di questo gruppo di corsari sognatori: “Il Trattolibero mi permette di entrare nel mondo di quelli che sognano”. Parola di Yigal, primario di Anestesia presso l’ospedale di Pordenone e fresco autore del libro “Una vita qualunque” (Giuntina, 294 pagine, 15 euro), nel quale ricostruisce le memorie del padre Mitia Leykin tra le due guerre mondiali e l’Olocausto.



Trattolibero a Pordenonelegge: “Raccontiamo il dolore”. Dolore e più dolor, se tace

"Inpaziente attesa" - illustrazione a cura di Glenda Sburelin
Ma non finisce qui. Goccia su goccia, idea su idea, il Trattolibero ha gattonato, si è alzato in piedi, ha camminato ed è tornato da dove era partito: Pordenonelegge. Da lì abbiamo cominciato e lì siamo tornati, stavolta in veste d’autori. In occasione della XIV edizione di Pordenonelegge infatti il Trattolibero ha presentato la sua terza raccolta di racconti dal titolo “Inpaziente attesa”, all’interno del Congresso nazionale dell’Area culturale Dolore della Società Italiana di Anestesia, riunito a Pordenone nei giorni del festival. Il titolo dell’evento era “Raccontiamo il dolore”. Dolore è più dolor, se tace -  citando un celebre verso di Giovanni Pascoli – e riassumeva il tentativo di raccontare il dolore fisico attraverso brevi racconti, nei quali ancora una volta siamo stati chiamati a misurarci con noi stessi, con le nostre esperienze e con le nostre interpretazioni della realtà – in questo caso della realtà del dolore, una bestia con la quale ogni uomo deve fare i conti prima o poi nella vita, ma che può essere esorcizzata espellendola fuori, anche attraverso la scrittura. Durante l’evento, come per le presentazioni dei primi due numeri, abbiamo letto al pubblico degli estratti di ogni racconto, il tutto accompagnato dalla musica e dalle sue note. I Camerieri italiani - ensamble di musicisti pordenonesi che si propongono di rileggere in modo inedito i classici della canzone italiana dagli anni '50 fino ad oggi – hanno accompagnato musicalmente con il loro straordinario repertorio le letture dei nostri brani, affidate per l’occasione all’estro e all’interpretazione del nostro attore Luca, che ermeticamente spiega così la natura del nostro gruppo: “Ingannati da un annuncio con su scritto <<la casa editrice Priscilla cerca inediti, anche racconti brevi>>, ci siamo ritrovati nel giorno di San Pacomio, nei pressi di un convento francescano. Monaci scrivani dell’era digitale comunichiamo attraverso un gruppo Google e durante i nostri incontri offriamo libagioni in sacrificio al Grande Editor, che un giorno ci pubblicherà tutti”. Eh sì, perché in attesa che il Grande Editor goda del talento di ognuno di noi, continuiamo a sfornare idee raccogliendole in un blog, che non poteva che chiamarsi Trattolibero (trattolibero.altervista.org). 

Musica e scrittura: un binomio fantastico fra note e parole scritte

Tornando alla musica: essa è sempre stata centrale nel Trattolibero, come fonte di ispirazione per molti di noi ma anche occasione di relax nella lettura, oltre che sottofondo fondamentale nella presentazione dei nostri scritti, grazie ai repertori di Nicolas Rosan, del maestro Gianni Fassetta e dei prima citati Camerieri italiani, che con la loro musica hanno dato ritmo ed emotività alle nostre catene di parole scritte su carta. Un binomio fantastico e perfettamente complementare quello fra musica e scrittura, dove l’una esalta l’altra reciprocamente: e in fondo la musica è fatta di parole e note scritte, così come la scrittura di parole legate da armonia e musicalità. Scrivere una storia o scrivere una canzone in fin dei conti è sempre una forma di narrazione, che sia tramite un racconto o tramite la musica. E scrivere è dare forma ai propri pensieri, conoscere sé stessi dall’esterno scoprendo i pregi e i difetti che i nostri occhi non riescono a vedere. Scrivere è saper dare consistenza alle proprie emozioni attraverso le parole, liberarsi dei pesi che non sappiamo sopportare, esprimere le gioie che non sappiamo contenere: in poche parole scrivere è lasciar parlare una parte di sé stessi.



Trattolibero: un gruppo eterogeneo e multilingue tenuto insieme da un filo di lettere ed idee

E scrivere è lo strumento del quale mi sto servendo per raccontare – a voi che state leggendo – la storia del Trattolibero, un gruppo di scrittura e di scrittori che sta continuando a imparare, giorno dopo giorno, a vivere la realtà e a interpretarla attraverso l’arte della scrittura, cavalcando liberamente la cresta dell’onda aspettando pazientemente e serenamente la prossima, goccia dopo goccia, idea dopo idea. Il tutto con spontaneità, naturalezza e con la voglia di confrontarsi, come dice la nostra grafica Laura, terza classificata al Premio Letterario Nazionale "Per le Antiche Vie" con il racconto “Il Creativo”: La cosa bella di questo gruppo è stata la naturalezza della sua formazione. La serendipità mette lo zampino in questo genere di esperienze: se le cerchi di proposito non le trovi. Non è facile scrivere e leggere insieme agli altri, a volte le parole riflettono come un prisma le tue mille sfaccettature, le peggiori e le migliori. Bisogna prendersi la responsabilità del confronto e non mentire a sé stessi, ma questo mette in luce le diversità e crea collegamenti fra le generazioni. Non è poco”.


Questo breve excursus del nostro gruppo mi ha visto narratore di tanti ricordi che ne tracciano l’identità e la bellezza, in un collage di pensieri che esprimono la personalità di persone tanto diverse quanto appassionate alla scrittura. Ma non posso non concludere con le parole scritte ancora da Rosa Marìa e che in fondo sono le parole di tutti noi: “Eterogeneo e multilingue, Trattolibero siamo tutti ed uno solo... a volte lontani tra di noi ma collegati da un filo di lettere ed idee, così diversi ma uguali nella passione della scrittura che un venturoso giorno ci unì in quest'avventura”.



ARTICOLO USCITO PER IL NUMERO DI SETTEMBRE DELLA RIVISTA "EVENTI" DI PORDENONE.