venerdì 29 maggio 2015

PODEMOS, I GRILLINI SPAGNOLI CAMBIANO LO STATUS QUO DELLA POLITICA IBERICA

Le recenti elezioni amministrative del mese di maggio tenutesi in Spagna hanno visto un netto calo del Partito Popolare del primo ministro Rajoy, che rimane comunque il primo partito del Paese. 
Logo di Podemos (Photo Credit: Wikipedia)


Gli equilibri della politica spagnola - incentrati da ormai trent’anni su un bipartitismo radicato fra Partito Socialista Operaio Spagnolo (PSOS) e il prima citato Partito Popolare (Pp) – vengono però sconvolti da un partito che potremmo definire outsider: Podemos. Il partito guidato da Pablo Iglesias Turrión ha infatti trionfato a Barcellona ottenendo il 25,20% dei voti contro il 22,7% del Pp - che hanno portato la candidata Ada Colau a diventare sindaco della città – ottenendo ottimi risultati anche a Madrid, in un testa a testa con il Pp. A tali risultati bisogna aggiungere il 15% raggiunto nelle amministrative di marzo in Andalusia (Podemos terzo partito) e l’8% raggiunto alle elezioni europee dello scorso anno (Podemos quarto partito spagnolo) che hanno portato al partito 5 eurodeputati al Parlamento Europeo (Podemos ha aderito al gruppo parlamentare europeo Sinistra Unitaria Europea - Sinistra Verde Nordica, ispirato ai valori della sinistra socialista, comunista ed ecologista). 
La crescita di Podemos all’interno della politica spagnola sposta il suo status quo: dopo il successo di Barcellona Iglesias, segretario del partito e europarlamentare, ha infatti dichiarato che “l’era del bipartitismo in Spagna è terminata. Sfideremo Rajoy per la carica di primo ministro alle elezioni di novembre”. Un obiettivo chiaro quindi per il neonato partito spagnolo, che non si accontenta e vuole andare al governo per cambiare la radicalmente la politica spagnola. 
Il Segretario di Podemos, Pablo Iglesias Turrión
 (Photo Credit: Wikipedia)


Ma come nasce Podemos? Quali sono i suoi ideali politici? Il partito viene fondato il 17 gennaio 2014 da alcuni attivisti di sinistra legati al Movimento 15-M, meglio noto come Movimento degli Indignados, ossia un movimento sociale  che ha riunito molti cittadini nella protesta pacifica contro il governo spagnolo di fronte alla grave crisi economica in cui versava il Paese nel 2011 – protesta tra l’altro ispirata anche alla Primavera Araba che in quel periodo vedeva le società dei Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente insorgere contro i rispettivi regimi autoritari. Gli obiettivi di Podemos hanno base negli ideali della protesta degli Indignados, riuniti dallo slogan “Noi non siamo marionette nella mani di politici e di banchieri”, con il fine primario di mettere fine al bipartitismo nella politica spagnola sostituendo il Partito Socialista Operaio Spagnolo nella guida della sinistra. Il programma politico di Podemos consiste quindi in un controllo pubblico delle banche, nell’introduzione di una Tobin Tax sulle transazioni finanziarie (ossia una tassazione su tutte le transazioni sui mercati valutari al fine di stabilizzarli), nell’inasprimento delle pene per i reati fiscali, in un tetto massimo per le rate dei mutui, in referendum obbligatori relativamente ai temi decisionali importanti e all’introduzione del reddito di cittadinanza. (Per maggiori approfondimenti si segnalano gli interessanti articoli del Post e del Guardian sulla breve storia di Podemos). 

Il partito spagnolo ricorda molto il Movimento 5 Stelle in Italia, per obiettivi politici quanto per modus operandi politico. Podemos infatti si scaglia contro i privilegi della classe dirigente e la corruzione, proprio come il M5S, tanto da essere stato ribattezzato in Italia “il partito dei grillini spagnoli”. Inoltre la sua identità politica si raffigura nel suo leader, il segretario Pablo Iglesias Turrión, eletto europarlamentare lo scorso anno ed estremamente duro contro la politica spagnola, proprio come Beppe Grillo con quella italiana. Un modo di fare politica che da molti viene definito populista e reazionario, dati i toni accesi dei comizi del leader spagnolo quanto di quello italiano, che hanno sicuramente una matrice comune nella difficile situazione economica e sociale dei cittadini - basti pensare che Iglesias ha partecipato come No Global al G8 di Genova del 2001. Ha inoltre sostenuto – come Grillo e il M5S – Alexis Tsipras alle elezioni in Grecia chiudendo con lui sul palco la campagna elettorale.


Insomma, dopo il boom dei grillini nella politica italiana ecco il boom dei grillini spagnoli in quella iberica.

martedì 26 maggio 2015

IL MALE DELL'INTOLLERANZA

“Voi che vivete sicuri, nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a casa il cibo caldo e visi amici: considerate se questo è un uomo, che lavora nel fango, che non conosce pace, che lotta per mezzo pane, che muore per un sì o per un no. Considerate se questa è una donna, senza capelli e senza nome, senza più forza di ricordare, vuoti gli occhi e freddo il grembo, come una rana d’inverno. Meditate che questo è stato: vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore, stando in casa andando per via, coricandovi alzandovi; ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi”.

Con queste parole aspre si apre Se questo è un Uomo, il libro scritto da Primo Levi e pubblicato nel 1956 da Einaudi, nel quale il chimico piemontese di origini ebraiche racconta gli anni trascorsi nel Lager di Auschwitz, in Polonia, dopo esservi stato deportato nel 1944. Un libro scritto per soddisfare il bisogno di raccontare agli altri per farli partecipi dell’orrore della miseria vissuta da molti uomini nei campi di sterminio nazisti. Un libro scritto a scopo di liberazione interiore, come ammette lo stesso Levi nella prefazione, mettendo in risalto gli aspetti più crudi della deportazione di milioni di ebrei, dalle sofferenze fisiche della fame e del freddo fino alle umiliazioni subite ogni giorno. Levi non scrive la storia del Lager per lamentarsi né tantomeno per attaccare: con estrema lucidità semplicemente racconta, dà sfogo alla sua memoria e al suo vissuto, con l’intento di trasmettere al lettore un messaggio che riguarda essenzialmente l’uomo e la sua esistenza. Levi vuole sottolinearne la fragilità d’animo ancor più che quella fisica, ribadendo come l’agire umano sia spinto spesso dall’irrazionale - a volte forse dalla pazzia - mettendo l’uomo contro l’uomo e in fin dei conti contro sé stesso.
Ed è forse qui che l’ideologia nazista manifesta la sua più estrema crudeltà, riducendo l’ebreo, il criminale e il politico dissidente a semplice oggetto - se non addirittura all’ultima delle bestie - privandolo completamente della sua umanità. Levi ricorda bene l’umiliazione di essere trattato senza alcuna pietà, il linguaggio gelido delle SS, i loro volti rigidi come fossero di pietra, il loro chiamarli Stück – pezzo – come fossero oggetti o dar loro da mangiare utilizzando la parola fressen[1] – mangiare – rivolgendosi a loro come animali. Ricorda eventi, persone, stati d’animo, e li racconta, mantenendo vivi i suoi ricordi e scrivendoli nero su bianco, affinché l’uomo non dimentichi.

Ricordare per non dimenticare
E in fin dei conti è quello che facciamo ogni anno il 27 gennaio per la Giornata della Memoria: ricordiamo per non dimenticare questo orrore. Ricordiamo che milioni di uomini sono morti a causa della crudeltà di altri uomini, che la libertà è stata resa schiava dell’ideologia e che la violenza ha causato ingenti sofferenze e ingiustizie. Ricordiamo proiettando le immagini in bianco e nero lasciateci dalla storia, rabbrividendo di fronte al filo spinato sulle mura dei campi di concentramento, alla scritta Arbeit macht frei posta all’ingresso del campo di Auschwitz, alle foto di quegli uomini ridotti a scheletri ambulanti, dei forni crematori e delle camere a gas. Ricordiamo leggendo e rileggendo il libro di Levi, chiedendoci davvero se questo è un uomo, ridotto a dover sopravvivere e non a vivere, a dover perdere l’affetto dei cari guadagnando solo botte e disprezzo, a dover mangiare pane raffermo e a lavarsi in acqua torbida. Cerchiamo di ricordare interrogandoci se un uomo che viene privato della sua libertà e della sua dignità sia ancora un uomo. Leggiamo Levi mentre descrive gli attimi in cui l’uomo prende la consapevolezza di dover morire, mentre rinuncia a pensare e a sperare perché “guai a sognare: il momento di coscienza che accompagna il risveglio è la sofferenza più acuta”[2]. Leggiamo mentre ci viene descritta dettagliatamente la demolizione dell’uomo e della sua identità, la distruzione del suo nome attraverso l’etichettamento di un numero tatuato su un braccio e cucito su una giacca. “Condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile”[3], scrive Levi.
Lo pensiamo anche noi, mentre ricordiamo questo dramma storico e umano, magari commuovendoci davanti ad un film sulla Shoah, salvo poi dimenticarci che tutto questo accade ancora, ogni giorno, sempre più spesso sotto casa nostra.

Lo straniero come nemico
“A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che ogni straniero è nemico. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager”[4].

È questo quello che Levi definisce il principio del Lager, secondo il quale ogni straniero è da considerarsi un nemico, un pericolo, un ostacolo da eliminare. È un principio che Levi paragona ad una infezione che attacca l’animo umano rendendolo insensibile a qualunque forma di pietà e di umanità. L’incapacità di solidarietà che ne deriva è espressione di un fastidio che si prova nel guardare qualcuno diverso da noi, manifestando così un’incapacità di comprensione e di accettazione della diversità. Siamo cioè intolleranti. Ma cos’è di preciso l’intolleranza? Qual è il sottile confine fra il difendere le proprie idee e l’accettare quelle degli altri? Il vocabolario Treccani con intolleranza definisce un

“attaccamento rigido alle proprie idee e convinzioni, per cui non si ammettono in altri opinioni diverse e si cerca di impedirne la libera espressione, partendo dal presupposto dell’unicità della verità, e dalla convinzione di essere in possesso della verità stessa”[5].

Sostanzialmente il confine fra tolleranza e intolleranza sta nell’accettare di poter imparare anche da chi la pensa diversamente da noi, attraverso un confronto e un dialogo che siano da arricchimento reciproco e non uno scontro ideologico.
Purtroppo viviamo in un mondo nel quale tale accettazione non è messa in pratica, probabilmente perché per farlo serve anche grande umiltà. Riconoscere di poter sbagliare e di dover fare marcia indietro - magari chiedendo pure scusa – non va molto di moda nella nostra società. Per questo e per altri motivi prende sempre più piede una crescente intolleranza nei confronti di chi è diverso da noi e ci è quindi di ostacolo. Una intolleranza che è di diverse tipologie: politica, sociale, religiosa, razziale, culturale ecc.
Il degrado che stiamo vivendo nella nostra società è infatti a diversi livelli: basti pensare all’incapacità della classe politica di attuare politiche pubbliche in grado di porre rimedio a problemi quali il precariato, la disoccupazione, l’evasione fiscale e l’innalzamento dell’età pensionabile. Problematiche sì di difficile soluzione, soprattutto alla luce della crisi economica e finanziaria oggi in atto, ma che potrebbero avere degli spiragli di attuazione se solo le forze politiche in gioco cercassero di instaurare un dialogo costruttivo per il bene della collettività. Certamente degli sforzi in questo senso ci sono stati e sono in progetto di essere in futuro, ma evidentemente ancora non abbastanza da registrare dei progressi significativi. Naturalmente la crisi economica quanto quella sociale è dovuta anche ad altri fattori, quali la corruzione, una classe politica non qualificata e all’altezza, ma anche una scarsa cultura sociale che sia espressione di una cittadinanza pienamente responsabile. Basti pensare al successo che il Movimento 5 Stelle ha avuto alle ultime elezioni politiche del 2013, raggiungendo il 25% dei gradimenti: un risultato che è espressione di un voto di una chiara protesta nei confronti della classe politica[6]. Ma la nostra società vive un’intolleranza che è soprattutto sociale e dalla quale nasce l’intolleranza politica. L’aumento degli immigrati nel nostro Paese non è stato accompagnato da una adeguata educazione civica rivolta all’accoglienza e all’integrazione. L’immigrato è, inconsciamente o meno, visto come lo straniero che ruba il lavoro, l’assistenza sociale e le case popolari, diventando così scomodo: viene subito associato alla clandestinità e alla criminalità, aumentando il senso di allerta e di pericolo nella popolazione e dando forza a pregiudizi negativi nei suoi confronti. Tutto questo è il risultato di un mancato processo di integrazione e di accoglienza, oltre che una incapacità politica di regolamentare i flussi migratori e le entrate degli stranieri. Fatto sta che movimenti e partiti populisti – in Italia come nel resto d’Europa – portano avanti campagne di discriminazione e di odio nei confronti degli stranieri, accostando ad essi le cause di ogni male sociale. Il passo immediatamente successivo è quello dell’indifferenza. Molto frequentemente sentiamo in televisione di qualche sbarco di immigrati a Lampedusa, il più delle volte terminato con centinaia di morti in mare. Eppure questo dramma sembra non toccarci, lasciandoci quasi indifferenti di fronte alla morte, come sottolineato da Papa Francesco – che ha usato l’espressione globalizzazione dell’indifferenza - durante l’omelia della messa celebrata durante il viaggio apostolico a Lampedusa[7].
Si crea così il principio dello straniero nemico individuato da Levi, sul quale è poi stata creata la crudeltà dell’ideologia nazista, espressione di una intolleranza ingiustificata e senza limiti.

#migliorisipuò – Anche le parole uccidono
La creazione del nemico, ossia di un capro espiatorio che sia la causa di tutti i problemi, è il prodotto dell’intolleranza del diverso e comporta diversi fenomeni sociali quali la discriminazione, la violenza, l’etichettamento e l’indifferenza. Tutti aspetti in qualche modo intrecciati fra loro e che sono accomunati dalla chiusura all’accoglienza dell’altro.
Numerose sono le forme di discriminazione, riconducibili alle tipologie di intolleranza prima nominate, che danno luogo a pregiudizi e luoghi comuni.  La discriminazione può avvenire inoltre su più piani: essa può essere manifestata infatti attraverso la violenza fisica oppure attraverso la violenza verbale, con lo scopo comune di isolare l’altro staccandolo da ogni tipo di legame sociale, abbandonandolo a sé stesso. Proprio la violenza verbale è forse la forma più subdola di discriminazione, in quanto logora lentamente la dignità dell’uomo facendogli pesare la propria condizione umana e sociale. 
Photo Credit: Famiglia Cristiana

Contro questa mentalità Famiglia Cristiana, Avvenire, l’agenzia di comunicazione Armando Testa e la Federazione italiana settimanali cattolici (Fisc) hanno dato il via alla campagna sociale Anche le parole uccidono che si inserisce all’interno di un progetto più ampio, #migliorisipuò[8], che ha come obiettivo quello di creare iniziative in grado di stimolare la sensibilità e la crescita sia personale che della società. Secondo la campagna guidata da Famiglia Cristiana le parole hanno un peso notevole all’interno delle relazioni sociali e umane: per questo ne sono state scelte quattro (negro, ladra, terrorista, ciccione), raffigurate come proiettili che trafiggono le persone a cui sono spesso rivolte. La forza dei manifesti della campagna sta nei volti delle persone colpite da questi insulti - che sono dei veri e propri proiettili – e nei loro sguardi pieni di umanità. La Swg ha condotto in questo senso un sondaggio dal quale emerge come il 66% degli intervistati risulta essere stato discriminato almeno una volta nella vita mentre il 51% di aver vissuto episodi come vittima dell’intolleranza. Inoltre tossicodipendenti, gruppi di rom e mendicanti sono le tre categorie che suscitano negli intervistati maggior disagio, paura e rabbia, mentre condizione economica, aspetto fisico, peso e genere sono fra le cause maggiori per le quali gli italiani si sentono discriminati. Naturalmente i pregiudizi che portano alla diffidenza e alla discriminazione nascono da esperienze personali come scippi e insulti, ma anche dalla narrazione collettiva fatta dai media e dagli opinion leader, in grado di alimentare pregiudizi e sentimenti negativi strillando titoli in prima pagina o nascondendo determinati eventi creando un’immagine distorta della realtà[9].

Il dramma della guerra
Ricordando la Seconda Guerra Mondiale e leggendo la testimonianza di Primo Levi possiamo affermare che la storia ci ha insegnato come da queste forme di discriminazione e di intolleranza sia scaturita una violenza inaudita sfociata in guerre a volte fratricide. Gli orrori dei campi di concentramento nazisti e la distruzione delle bombe atomiche ci sembrano lontani, eppure oggi stiamo vivendo un tempo di guerra caratterizzato da una escalation di intolleranza e violenza disarmanti. Tutti abbiamo ben impresse nella memoria le immagini degli attentati alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, data diventata emblematica e pietra miliare nella storia contemporanea: tale evento ha infatti sancito l’inizio della cosiddetta guerra al terrorismo, iniziata con le missioni in Afghanistan nel 2001 e in Iraq nel 2003 da parte degli Stati Uniti in nome della libertà, della pace e della democrazia. Al Qaeda era la minaccia internazionale a tali valori, il nemico da sconfiggere ad ogni costo. Lo stato di allerta che è scattato a seguito dell’attentato al cuore del mondo occidentale ha inevitabilmente creato un pregiudizio nei confronti dell’Islam e dei musulmani, comportando uno stato di diffidenza continuo. Da quel giorno in poi vedere un musulmano su un mezzo pubblico così come vederlo aggirarsi per strada fa scattare in noi, inconsciamente, un senso di insicurezza, di dubbio, di sospetto. Questa era l’obiettivo di Al Qaeda e del fondamentalismo islamico: giocare sulle emozioni portando la società occidentale a non sentirsi più sicura nemmeno a casa propria. Questo perenne stato di paura ha inevitabilmente comportato uno stato di discriminazione per quelle persone riconducibili alla religione musulmana: a farne le spese siamo noi che viviamo con timore la loro presenza nella nostra società e in primis quelle persone che professano lo propria fede in maniera genuina e sincera, senza aver nulla a che fare con l’estremismo religioso legato alla jihad[10].
Sicuramente l’entrata in scena dell’Isis (Islamic State of Iraq and Syria) nello scenario geopolitico internazionale non ha migliorato le cose. La capacità comunicativa dello Stato Islamico infatti permette a tale organizzazione terroristica di esercitare una forma di deterrenza nei confronti dell’Occidente: i video delle decapitazioni degli ostaggi e delle altre forme brutali di uccisione sono un messaggio di violenza estrema che genera un terrore ancora superiore a quello degli attentati dei kamikaze di Al Qaeda. Il recente attentato al Museo del Bardo a Tunisi – nel quale sono morti anche quattro italiani – ha acceso il dibattito sulla sicurezza internazionale nell’opinione pubblica, in quanto avvenuto geograficamente molto vicino all’Europa, in un Paese – la Tunisia – che non destava preoccupazioni in tal senso. Come ha scritto sulla rivista Internazionale Bernard Guetta – giornalista francese che collabora con Libération – “se la Tunisia è stata colpita è perché gli estremisti islamici odiano profondamente tutto ciò che rappresenta: non solo è un Paese dove le donne sono libere, dove la società rifiuta ogni forma di estremismo e dove la mobilitazione civica ha impedito qualsiasi deriva oscurantista dopo il crollo della dittatura, ma è un Paese dove il grande partito islamico, Ennahda, ha voltato le spalle alla violenza, rispetta la democrazia e segue la via del compromesso politico[11]. Ciò rientra in una logica totalitaria di eliminazione del diverso, in quanto si rifiuta la diversità del modello occidentale - dalla cultura alla religione - soprattutto se tale modello viene ad interagire con un Paese come la Tunisia - dove il 97% della popolazione è di maggioranza musulmana – che non impone il velo alle donne e non inserisce la sharia[12] nella Costituzione”.  

Il ruolo della religione
La religione è sempre stata storicamente uno dei maggiori fattori di contrasto sociale non solo fra popoli differenti ma anche all’interno di uno stesso popolo. Questa dinamica conflittuale è però un paradosso, dato che il fine ultimo della religione dovrebbe essere la solidarietà fra gli uomini e il perseguimento del bene. Quando al contrario la religione viene interpretata con la presunzione di eliminare Dio, strumentalizzata politicamente e usata come elemento di supremazia su altre culture allora la discriminazione e l’intolleranza prendono il sopravvento, portando al cosiddetto estremismo religioso. Non si parla più di solidarietà ma di eliminazione dell’infedele, di dialogo interreligioso ma di proselitismo, di collaborazione ma di competizione: da questa logica proliferano quindi le guerre sante, gli attentati terroristici e i martiri dei kamikaze. Lo scontro non è solo fra cristiani e musulmani ma anche fra sunniti e sciiti, fra cattolici e ortodossi e così via: l’unica soluzione a tali conflitti è la via del dialogo, come ha più volte ripetuto Papa Francesco nel corso dei suoi viaggi apostolici, soprattutto in Terra Santa e in Turchia. Il pericolo più grande è quello di confondere la religione con l’estremismo e il fondamentalismo, come sta avvenendo in maniera ancora più evidente dopo l’attentato di Parigi alla redazione della rivista satirica francese Charlie Hebdo: sul web è circolato l’hashtag #NotInMyName, messaggio della campagna di solidarietà lanciata da parte di quei musulmani che non vogliono essere accostati all’estremismo islamico e che in esso non si rispecchiano, mettendoci direttamente la faccia e condannando duramente la violenza.


Ma la religione è purtroppo anche un fattore di divisione politica e proprio l’attentato a Charlie Hebdo ne è stata la conferma. La violenza usata contro una rivista la cui linea editoriale è notoriamente contraria a qualsiasi religione ha fortemente riacceso il dibattito sulla laicità dello Stato e sul ruolo della religione nella democrazia. L’hashtag #JeSuisCharlie è stato il canale preferenziale di espressione di tale visione, secondo la quale non deve esserci nessun limite alla libertà di satira ed opinione. L’attacco ad un giornale è un attacco alla libertà di stampa e alla voce dell’opinione pubblica ed è stato un chiaro atto di intolleranza. Detto ciò si corre il rischio di strumentalizzare la libertà di espressione rendendo incoerente il concetto stesso di libertà: anche schernire blasfemamente Dio e la religione è infatti una forma di intolleranza. Il concetto di laicità non può comportare, in una società civile e democratica, la riduzione al silenzio della religione, qualunque essa sia: sarebbe infatti una limitazione della libertà d’opinione e una forma di discriminazione religiosa. Imbrattare il muro della redazione della rivista cattolica Tempi con escrementi e insulti, abbattere l’insegna del quotidiano cattolico La Croce così come utilizzare l’espressione “ultra-cattolici” per riferirsi ai cristiani è una forma di intolleranza e di etichettamento che è incoerente con il principio stesso del messaggio #JeSuisCharlie.
L’intolleranza e la violenza non portano al dialogo – sale della democrazia quanto la libertà d’espressione – ma ad un muro contro muro sterile. Concetto ribadito anche da Papa Francesco, che ha duramente condannato l’uso della violenza in nome di Dio durante il suo viaggio in Turchia del 28 novembre 2014:

“La violenza che cerca una giustificazione religiosa merita la più forte condanna, perché l’Onnipotente è Dio della vita e della pace. Occorre contrapporre al fanatismo e al fondamentalismo la solidarietà di tutti i credenti, per bandire ogni forma di fanatismo e di terrorismo, che umilia gravemente la dignità di tutti gli uomini e strumentalizza la religione”.



Saggio premiato al concorso EUROPAeGIOVANI 2015 - organizzato dall'IRSE - con la seguente motivazione: "Partendo da alcune considerazioni sul libro Se questo è un Uomo di Primo Levi, l'autore analizza l'intolleranza presente nella società italiana, dovuta anche all'incapacità di adottare adeguate politiche migratorie. Riflette sui modi di manifestare la discriminazione e sul ruolo che la religione può avere come fattore di divisione". 



[1] In tedesco il verbo fressen – mangiare – viene usato in riferimento agli animali. Il verbo utilizzato in riferimento all’essere umano è essen.
[2] P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1956, p. 44
[3] P. Levi, op. cit., p. 24
[4] P. Levi, op. cit., p. 7
[5] Def. Intolleranza da Treccani: http://www.treccani.it/vocabolario/intolleranza/
[6] Nel 2013 inoltre l’affluenza al voto è stata del 75%, il 5% in meno del 2008 quando l’affluenza fu dell’80%: l’astensionismo è un altro dei fattori che sono espressione della sfiducia e della protesta dei cittadini nei confronti della politica, allargando la frattura fra governanti e governati.
[7] Viaggio apostolico compiuto dal Papa l’8 luglio 2013 per esprimere solidarietà alle vittime dello sbarco.
[8] Migliorisipuò, insieme contro la discriminazione, Famiglia Cristiana, 23 ottobre 2014
[9] A. Laggia, , Ma che “razza” di parole, Famiglia Cristiana, 23 ottobre 2014
[10] Def. Jihad da Treccani: “jihad (ar. gihād) Nel linguaggio religioso islamico, la ‘guerra santa’ contro gli infedeli, per l’espansione della comunità ed eventualmente per la sua difesa. È un dovere collettivo, ma in base alle decisioni del capo della comunità, può divenire un obbligo individuale di tutti i credenti. Ha inoltre un valore perpetuo poiché la pace con i non musulmani è una condizione del tutto provvisoria. Gli sciiti, al contrario dei sunniti che antepongono all’attacco agli infedeli un chiaro invito alla conversione, pongono la guerra santa tra i fondamenti (arkān) dell’Islam”.
[11] B. Guetta, Tunisi, le ragioni di un massacro, Internazionale, 19 marzo 2015
[12] Def. Sharia da Treccani: “shariašarìia› s. f., arabo (propr. «strada battuta»). – Legge sacra dell’islamismo, basata principalmente sul Corano e sulla sunna o consuetudine, che raccoglie norme di diverso carattere, fra le quali si distinguono quelle riguardanti il culto e gli obblighi rituali da quelle di natura giuridica e politica; di quest’ultimo gruppo fanno parte le prescrizioni che regolano la conduzione della guerra santa (v. jihad)”.

lunedì 18 maggio 2015

LA BUONA SCUOLA DI MATTEO RENZI

Nell'ultima settimana ha tenuto banco il dibattito sulla riforma della scuola proposta dal governo Renzi. Molte sono state le proteste dei sindacati, che non ritengono la riforma scolastica all'altezza delle esigenze degli insegnanti, in particolar modo per quanto riguarda precari, supplenti e non di ruolo. Molte sono state anche le critiche mosse al merito della riforma, dalle prove Invalsi all’entità dei finanziamenti alle scuole pubbliche e private, dalla suddivisione delle ore dedicate alle diverse materie fino al ruolo "manageriale" dei presidi. 

Qui di seguito i 12 punti della riforma - denominata "La Buona Scuola" -  presentati dal governo: 


1. MAI PIÙ PRECARI NELLA SCUOLA: 
Un piano straordinario per assumere 150 mila docenti a settembre 2015 e chiudere le Graduatorie ad Esaurimento. 


2. DAL 2016 SI ENTRA SOLO PER CONCORSO:
40 mila giovani qualificati nella scuola fra il 2016 e il 2019. D’ora in avanti si diventerà docenti di ruolo solo per concorso, come previsto dalla Costituzione. Mai più ‘liste d’attesa’ che durano decenni.

3. BASTA SUPPLENZE:
Garantire alle scuole, grazie al Piano di assunzioni, un team stabile di docenti per coprire cattedre vacanti, tempo pieno e supplenze, dando agli studenti la continuità didattica a cui hanno diritto.

4. LA SCUOLA FA CARRIERA: QUALITÀ, VALUTAZIONE E MERITO:
Scatti, si cambia: ogni 3 anni 2 prof. su 3 avranno in busta paga 60 euro netti al mese in più grazie ad una carriera che premierà qualità del lavoro in classe, formazione e contributo al migliora- mento della scuola. Dal 2015 ogni scuola pubblicherà il proprio Rapporto di Autovalutazione e un progetto di miglioramento.

5. LA SCUOLA SI AGGIORNA: FORMAZIONE E INNOVAZIONE:
Formazione continua obbligatoria mettendo al centro i docenti che fanno innovazione attraverso lo scambio fra pari. Per valorizzare i nuovi Don Milani, Montessori e Malaguzzi.

6. SCUOLA DI VETRO: DATI E PROFILI ONLINE:
Online dal 2015 i dati di ogni scuola (budget, valutazione, progetti finanziati) e un registro nazionale dei docenti per aiutare i presidi a migliorare la propria squadra e l’offerta formativa.

7. SBLOCCA SCUOLA:
Coinvolgimento di presidi, docenti, amministrativi e studenti per individuare le 100 procedure burocratiche più gravose per la scuola. Per abolirle tutte.

8. LA SCUOLA DIGITALE:
Piani di co-investimento per portare a tutte le scuole la banda larga veloce e il wifi. Disegnare insieme i nuovi servizi digitali per la scuola, per aumentarne la trasparenza e diminuirne i costi.

9. CULTURA IN CORPORE SANO:
Portare Musica e Sport nella scuola primaria e più Storia dell’Arte nelle secondarie, per scom- mettere sui punti di forza dell’Italia.

10. LE NUOVE ALFABETIZZAZIONI:
Rafforzamento del piano formativo per le lingue straniere, a partire dai 6 anni. Competenze di- gitali: coding e pensiero computazionale nella primaria e piano “Digital Makers” nella secondaria. Diffusione dello studio dei principi dell’E- conomia in tutte le secondarie.

11. FONDATA SUL LAVORO:
Alternanza Scuola-Lavoro obbligatoria negli ultimi 3 anni degli istituti tecnici e professionali per almeno 200 ore l’anno, estensione dell’impresa didattica, potenziamento delle esperienze di apprendistato sperimentale.

12. LA SCUOLA PER TUTTI, TUTTI PER LA SCUOLA:

Stabilizzare il Fondo per il Miglioramento dell’Offerta Formativa (MOF), renderne trasparente l’utilizzo e legarlo agli obiettivi di miglioramento delle scuole. Attrarre risorse private (singoli cittadini, fondazioni, imprese), attraverso incentivi fiscali e semplificazioni burocratiche. 

Questo invece il video attraverso il quale Renzi ha presentato la riforma, sintetizzandola in 5 punti: 
Photo Credit: YouTube, Palazzo Chigi


1.ALTERNANZA SCUOLA-LAVORO:
Su questo punto Renzi ha sottolineato il 44% di disoccupazione giovanile, dato fra i peggiori in Europa e per questo l'urgenza numero uno. 

2.CULTURA UMANISTA:
Obiettivo della riforma è quello di puntare sulle materie umanistiche, dalle materie classiche alla storia dell'arte, dalla musica alle lingue. Su questo punto Renzi è stato molto attaccato, sia per quanto riguarda il porre le materie scientifiche in secondo piano, sia per quanto riguarda l'utilizzo del termine errato "umanista" invece del termine corretto "umanistica": una gaffe che ha posto fatto piovere sul premier molti attacchi mediatici e ironie dal mondo del web.

3. PIÙ SOLDI PER GLI INSEGNANTI:
La lotta al precariato e le assunzioni sono il cavallo di battaglia della riforma, con 500 € annuali in più per tutti gli insegnanti e 200 milioni di € da distribuire in base al merito. Quest'ultimo punto è stato molto criticato ma altrettanto difeso dal premier. 

4. AUTONOMIA: 
Secondo la riforma ogni scuola deve avere la possibilità di gestire autonomamente le proprie funzionalità in base alle sue esigenze, le quali si differenziano in base al territorio di appartenenza. Ciò porterebbe ad un maggior potere dei presidi, i quali diverrebbero quasi dei manager: aspetto non gradito da molti, i quali vedono il rischio di una sorta di "anarchia" nelle dinamiche decisionali.

5. CONTINUITÀ:
In questo senso il governo vuole dare continuità all'ambito scolastico con 100mila assunzioni in grado di ridurre il precariato fra gli insegnanti.