venerdì 28 dicembre 2018

Lo stadio chiuso è una presa in giro. Il razzismo si combatte con cultura ed educazione

Il fatto è uno di quelli già visti e sentiti: durante una partita di calcio un giocatore di colore, dalla pelle nera, è vittima di ululati razzisti da una parte dei tifosi di casa. Lo speaker dello stadio invita a non rivolgere frasi, cori e qualsiasi espressione possa essere definita razzista, ma invano. La partita finisce e inevitabilmente la questione è - giustamente - materia di discussione mediatica.


Photo Credit: Repubblica.it

Il giorno dopo il giudice sportivo decide di chiudere le porte di San Siro per la gara di Coppa Italia Inter-Benevento e per quella di campionato Inter-Sassuolo, con chiusura della Curva Nord, il settore caldo del tifo interista, per Inter-Sampdoria.

Che questa non sia una soluzione al problema, beh, è evidente a chiunque. Pensare di risolvere la questione degli ululati razzisti chiudendo lo stadio è semplicemente una soluzione miope, una non-soluzione. Usare il pugno duro contro chi il pugno duro lo utilizza come stile di vita è un provvedimento che non ha mai portato a un miglioramento della situazione. E la dimostrazione è il ripresentarsi cronico del problema.

A uscirne vittime, oltre al povero Koulibaly, sono tutti quei tifosi degni di questo nome che non potranno andare allo stadio nelle prossime due partite. Tutti quegli abbonati che allo stadio ci vanno per passione e non per ignoranza. Tutte quelle famiglie che del calcio fanno un motivo di festa e non una questione razziale.

Il risultato sarà vedere uno stadio vuoto senza sciarpe, colori, bandiere ed esultanze per un gol. Uno stadio in silenzio. A uscirne sconfitti saranno ancora una volta il calcio e lo sport. Saranno le istituzioni sportive, incapaci di trovare una soluzione a un problema che non nasce certamente con Inter-Napoli.

L'ignoranza di pochi ha così la meglio sul diritto di molti di vivere la propria passione sportiva. Ignoranza che, è bene ricordarlo, si combatte tramite la cultura e l'educazione. Aspetti che molte istituzioni - o presunte tali - ignorano per prime. Magari facendosi fotografare con quegli ultras che poi in televisione e su Facebook si condannano perché violenti o razzisti.

L'ignoranza di chi va allo stadio per insultare nulla ha a che fare con lo sport. E chiudere uno stadio altro non sarà che dare maggior forza a chi ha così il potere di impedire la celebrazione di un evento sportivo e di ricattare di conseguenza la propria società di calcio.

Il processo è semplice. Chiudi lo stadio, il club paga la multa e perde l'incasso per un certo numero di partite e quando lo stadio riapre si ritrova dentro gli stessi tifosi in grado di tornare a intonare ululati e cori razzisti. E allora al club non rimane che trattare con questi tifosi - o meglio, delinquenti - legittimandoli di conseguenza come interlocutori. 

Qual è la soluzione? Scopiazzare Inghilterra e Germania sarebbe un buon punto di partenza. Qualcosa si è già fatto - come tornelli all'ingresso e steward allo stadio - ma evidentemente non abbastanza. Margareth Thatcher combatté la violenza degli hooligans con norme severe: niente posti in piedi, niente alcol, telecamere di sorveglianza già ai tornelli d'ingresso e addirittura carceri all'interno dello stadio. In più, per i club, la possibilità di bandire a vita i tifosi dallo stadio

Il Taylor Report è un elenco di provvedimenti rigidi grazie a un altrettanto controllo rigido da parte della polizia. La presenza degli steward è fondamentale, ma non sono assolutamente sufficienti e competenti per garantire l'ordine contro la violenza negli stadi. Lo stesso accade in Germania, dove il servizio di polizia viene pagato anche dai club di calcio. Aspetto già proposto qualche anno fa ma che non ha trovato terreno fertile fra le istituzioni sportive e i club. 

La soluzione dello stadio chiuso è una presa in giro. È semplicemente l'incapacità di risolvere un problema molto più complesso che non si ha voglia - e forse nemmeno l'interesse - di risolvere. Parlare di "provvedimenti esemplari" e di "senso di responsabilità", espressioni che fioccano sulla bocca di molti in questi casi, non serve a niente senza decisioni intelligenti. 


giovedì 11 ottobre 2018

Attacco a L'Espresso e Repubblica, l'infelice uscita di Di Maio


La diretta Facebook in cui Luigi Di Maio qualche giorno fa ha attaccato i giornali, in particolare L'Espresso e Repubblica, è stata una mossa a dir poco azzardata. Diciamo pure infelice. Con l'intento di alimentare la narrazione dei giornali produttori di fake news - termine da un po' di tempo ormai di moda, che potrebbe benissimo essere definito con la parola disinformazione - il Vicepremier e Ministro del Lavoro altro non ha ottenuto che un effetto boomerang sul Governo legastellato. 




I tempi di uscita del suo attacco non sono stati i migliori, visto il momento delicato fra spread, def e condono (o come lo chiama il governo, pace fiscale). Temi delicati, tipici di ogni mandato esecutivo che si trova inevitabilmente a dover affrontare bilanci economici nella fase successiva a quella propagandistica. Insomma, a fare i conti per mettere in pratica quanto promesso in campagna elettorale. 

Ma vista la difficoltà a tenere in piedi il proprio esecutivo, fra gaffe e conti che fanno fatica a quadrare, il governo altro non può fare che continuare a percorrere la strada della propaganda, in quella che è comunemente definita campagna elettorale continua. Come bene ha spiegato Marco Damilano, direttore de L'Espresso, in questo editoriale, Salvini e Di Maio hanno bisogno di un capro espiatorio perenne contro il quale scagliare l'indignazione dell'opinione pubblica. 

Per il leader della Lega si alternano l'Europa e gli immigrati, per Di Maio i giornali, produttori di quelle fake news malevole per destabilizzare il governo del cambiamento che tanto bene vuole fare agli italiani. Ma se gli immigrati hanno poco potere per difendersi - e le dichiarazioni dell'Europa sono facili da far apparire come lontane e retoriche - attaccare i giornali ha un peso decisamente diverso. 

Dopo la diretta Facebook non sono tardate le risposte a Di Maio. Oltre al già citato Damilano, non si è fatta attendere la replica di Mario Calabresi: "Caro Di Maio, non abbiamo paura: continueremo a raccontare la verità", il titolo dell'editoriale del direttore di Repubblica. Che ha sottolineato: 

Siamo un giornale di opposizione, è vero, come lo siamo stati durante i governi Berlusconi o come abbiamo criticato Renzi. Siamo antitetici alle idee di Salvini, allo sdoganamento di comportamenti fascisteggianti, alla continua caccia ai nemici di turno, siano essi gli immigrati o l'Europa, allo scadimento del dibattito pubblico, ridotto ormai a slogan di bassissimo livello. Per quanto riguarda i 5 Stelle ciò che ci spaventa è l'incompetenza. Non hanno idea di come si governi e delle conseguenze delle loro azioni.

In particolare L’Espresso non ha risparmiato articoli molto duri con il governo, specialmente con il Movimento 5 Stelle. Dalla gaffe del Ministro dei Trasporti Danilo Toninelli sul tunnel che sarà pronto nel 2025 allo stesso Di Maio che ha alloggiato in un hotel di lusso nel suo viaggio in Cina - alla faccia del biglietto aereo in economy sbandierato sull’amato Facebook. Fino all’acquisto degli F35, i tanto odiati aerei di Renzi che una volta tagliati avrebbero permesso il risparmio necessario per il reddito di cittadinanza e che invece sono stati confermati fra le spese militari. 

L’attacco di Di Maio alla stampa ha scatenato inoltre anche la reazione dell’Ordine dei Giornalisti e della Federazione nazionale stampa italiana (Fnsi). Giuseppe Giulietti, presidente di quest’ultima, non ha usato mezzi termini: “L’aggressione alle testate del gruppo Gedi non riguarda solo quei giornali ma è un cazzotto sferrato al diritto dei cronisti di informare e a quello dei cittadini di essere informati. È intollerabile”. 

Nella gara al consenso tutta interna con la Lega di Salvini, Luigi Di Maio ha scelto il suo nemico. Forse quello sbagliato. 

venerdì 21 settembre 2018

Conte, Salvini, Berlusconi. Quando la sfera religiosa incontra la politica

"Unto del Signore", "Uomo della Provvidenza", "in odore di santità". Sono alcune delle espressioni che Silvio Berlusconi, nel corso del sua storia politica, si è attribuito per descrivere il suo ruolo politico-ma non solo. Espressioni con un chiaro riferimento alla sfera religiosa - e che potete trovare riassunte qui - che hanno fatto di Berlusconi una sorta di "Gesù della politica", per usare un'altra metafora religiosa pronunciata dal Cavaliere. Un uomo investito di un mandato divino, una guida politica ma allo stesso tempo un modello esemplare, al limite dello spirituale, da seguire.

Photo Credit: Libero Pensiero 

I manuali di comunicazione e leadership politica hanno analizzato e approfondito a più riprese il ruolo delle dimensione religiosa e spirituale nella leadership politica. Una dimensione in grado di coinvolgere l'elettore/cittadino, portandolo ad essere quasi - se non proprio - un adepto/seguace del suo leader. Un modello che Berlusconi ha cavalcato a più riprese nelle sue campagne elettorali. E a questo proposito molti ricorderanno Una storia italiana, il libretto-opuscolo spedito per posta agli italiani alla vigilia del voto del 2001. L'incontro con Giovanni Paolo II, il titolo "la traversata del deserto" a ricordare le tentazioni subite da Cristo da parte di Satana per quaranta giorni, il vestito bianco a simboleggiare la purezza. Berlusconi viene dipinto come un santo, un eletto.

Il marketing politico - e la sua narrazione religiosa - in questo senso è stato favorevole a Berlusconi nel colmare il vuoto lasciato dalla Democrazia Cristiana, avvicinando in particolare l'elettorato cattolico alle posizioni di Forza Italia. Un vuoto che persiste ancora oggi in questo segmento di elettorato, spaesato nella direzione da seguire e nell'offerta politica poco allettante.

Vuoto che sta cercando di colmare il governo legastellato. Il primo è stato Matteo Salvini, che nell'ultima campagna elettorale ha sbandierato in Piazza Duomo a Milano rosario e Vangelo, a sottolineare e rivendicare quell'appartenenza ai valori cristiani che oggi, latitante e trascurata, rappresenterebbe la crisi identitaria italiana. Al netto della crisi di valori (innegabile), l'uscita da difensore pubblico della religione cristiana a pochi giorni dal voto altro non è stata che una (discutibile) mossa acchiappa-voti, un amo gettato a quelli che "vedi, lui sì che non ha paura di mostrare la sua fede".



Mossa che è stata seguita dal premier Conte, che in un'intervista rilasciata a Bruno Vespa si è reso protagonista di una gag nella quale ha espresso tutta la sua devozione per padre Pio, con tanto di santino tirato fuori dalla giacca. I riferimenti a Paolo VI e a Aldo Moro hanno fatto il resto, nella costruzione della narrazione ideale per l'elettore cattolico medio.




Se Berlusconi esagerava un tantino nel suo paragonarsi a Dio - e più che sull'ego del Cavaliere qui bisognerebbe riflettere più sull'ingenuità di chi lo ha osannato davvero come un Messia - Salvini e Conte altro non hanno fatto che applicare le regole del marketing politico per raggiungere una parte di elettori. 

Ciò che viene da chiedersi è cosa cerchino e debbano cercare i cattolici nella politica, oltre a cosa aspettarsi da essa. Nella speranza che, noi cattolici - e sottolineo il noi - sappiamo andare oltre. Magari virando sui contenuti, più che su un santino o un rosario sventolati in aria.

sabato 21 luglio 2018

Due pesi e due misure


Oggi, il partito al Governo che ha costruito la sua identità e la sua fortuna politica sui pasticci bancari dell'ex partito di maggioranza al Governo, si ritrova con un Ministro indagato per usura bancaria e un partito alleato che ha truffato milioni di euro allo Stato e ai cittadini. 

Un Ministro così voluto nella formazione della squadra di governo tanto da provare a sollevare una rivolta popolare accusando il Presidente della Repubblica di impeachment, salvo poi tirarsi indietro qualche giorno dopo. 

Paolo Savona, Ministro degli Affari Europei, risulta indagato in un'inchiesta relativa ai parchi eolici, come si può leggere su Repubblica e sull'Ansa. Risulta indagato e in uno Stato garantista ciò significa che non ci sono colpevoli finché non si accertano eventuali colpe. 


Photo Credit: Vita.it 


Ricordiamolo: indagato non è sinonimo di condannato. È per questo motivo che le parole di commento di Di Maio alla vicenda ("L'indagine è un atto dovuto, sapevamo della situazione e si va avanti") suonano altamente contrastanti con la narrazione che l'attuale partito al Governo ha sempre portato avanti quando era all'opposizione, raggruppando il suo crescente elettorato intorno all'indignazione verso chi vive sulle spalle dei cittadini (risparmiatori e contribuenti). Parole che lasciano intendere un due pesi e due misure nella narrazione del Vicepremier e Ministro del Lavoro.


 


Ciò che preoccupa è sì l'ipocrisia che si evidenzia, ma ancor di più l'incapacità critica di una parte di quegli elettori incanalati col paraocchi nel racconto populista dei propri mentori. 

Ma d'altronde si sa, la memoria è sempre corta e veder crollare le proprie certezze altro non fa che spingerci verso il negazionismo, giustificando la propria causa con il più classico dei "noi siamo comunque meglio di voi". Già, quel noi contro voi tipico della narrazione antipolitica. 

domenica 17 giugno 2018

MIGRANTI, QUANDO CI DIMENTICHIAMO DELL'UMANITÀ

Tre anni fa, era il maggio del 2015, scrivevo questo breve saggio dal titolo "Il male dell'intolleranza". Lo ricordo non tanto perché piacque e fu premiato, ma perché spesso, quando guardo le notizie d'attualità, mi rendo conto di quanto la nostra società sia intrisa di un odio latente. 

Latente perché, salvo alcuni casi estremi che non voglio prendere ad esempio generalizzando, viviamo in una costante paura alla continua ricerca di qualcuno o qualcosa con cui prendercela. La politica e i politici per le cose che non vanno e "i migranti che ci rubano il lavoro e mettono in pericolo la nostra sicurezza" sono ultimamente i due dibattiti per eccellenza in questo senso. 

Nel primo caso, un forte sentimento di ribellione e ostilità verso la classe politica ha legittimato l'ondata populista che ha portato al governo penta-leghista guidato da Di Maio e Salvini (del povero professor Conte messo lì come un burattino strattonato a destra e a sinistra parleremo un'altra volta magari). Il secondo caso è invece il più recente, quello della cronaca degli ultimi dieci giorni. Che, in fin dei conti, è conseguenza ed espressione di un governo che non nasconde di far leva sulla paura e gli stereotipi della gente. 

La questione è ormai nota: il neo Ministro dell'Interno Matteo Salvini, d'accordo con il neo Ministro delle Infrastrutture Toninelli, ha impedito lo sbarco in Italia della nave Aquarius, con a bordo oltre 600 migranti salvati in mare. Nave che, dopo il tira e molla fra Italie e Malta, è arrivata oggi a Valencia, con l'aiuto della nave Dattilo della Guardia Costiera e di una nave della Marina Militare. Per i dettagli della vicenda leggete qui e qui





Come previsto e inevitabile, si sono create due fazioni contrapposte: chi si è indignato per il trattamento riservato ai migranti (fra i quali il sottoscritto) e chi ha detto "bravo Salvini, è ora che la smettano di invadere il nostro Paese". Detto che gli estremi non sono mai (completamente) un bene e che la verità è fatta di un incontro/confronto di idee, ciò che mi spaventa è come per alcuni possa essere facile pensare che tutte quelle persone ammassate in sovrannumero su una nave potessero essere per forza dei criminali pronti ad invadere e razziare il nostro Paese. 

E, ammesso e non concesso che in mezzo a quella gente ci fosse stato qualcuno in buona fede, beh, pace: si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. È chiaro che l'operato di Salvini ha portato acqua al mulino leghista e a quello di Fratelli d'Italia, che con l'hashtag #portichiusi altro non voleva dire che #primagliitaliani, sul quale hanno costruito il loro consenso in campagna elettorale. A maggior ragione se nel mentre erano in corso le elezioni amministrative in alcuni comuni d'Italia. 



La nave Aquarius (Photo Credit @SOSMedItalia


Il ruolo grillino in tutta questa vicenda è diciamo di contorno, visto che il Ministro Toninelli altro non ha ricoperto che l'ombra del collega Matteo. Ma d'altronde anche qui, il M5S non ha mai espresso una posizione chiara sulla situazione migranti e ancora una volta dimostra di vivere di opportunismo. 

Abbastanza deplorevole è invece la strumentalizzazione della frase pronunciata da Benedetto XVI nel messaggio per la 99esima giornata Mondiale del migrante e del rifugiato del 2012. "Anche non emigrare è un diritto umano" è un'espressione inappropriatamente utilizzata se mal estrapolata dal suo contesto, che potete ben leggere in questo articolo di Vatican Insider - La Stampa. Certo, non lo si nasconde, siamo d'accordo sul fatto che l'Europa debba necessariamente migliorare condizioni e modalità della regolamentazione dei flussi migratori. 





Questo però, non a discapito dell'umanità. La storia dovrebbe ricordarcelo ogni giorno. 




sabato 10 marzo 2018

CIAO DAVIDE


Ciao Davide,
è già passata una settimana da quando, come un fulmine a ciel sereno, te ne sei andato lassù. Giustamente il calcio italiano domenica scorsa si è fermato, sconvolto dalla tua scomparsa che nessuno poteva immaginarsi così assurda. Sabato scorso sei andato a dormire nella tua camera d’albergo, magari dopo esserti visto qualche video sul modo di giocare di Zapata e Lasagna, che il giorno dopo avresti dovuto marcare contro l’Udinese. E lì, come ti sei addormentato, non ti sei svegliato più. 



Immagine da Ilgiorno.it 

È davvero assurdo andarsene così e a pensarci viene ancora da chiedersi se tutto ciò sia accaduto davvero. Eri un semplice ragazzo di 31 anni con i suoi affetti e la sua passione per il calcio, così come molti di noi che, non avendo la fortuna di averne fatto una professione, la coltivano sui campetti di calcetto con gli amici. È strano pensare a come, da piccoli, guardiamo al calciatore come all’eroe, al modello che vorremmo un giorno diventare. E poi, quando cresciamo, guardiamo ai nostri coetanei che ce l’hanno fatta con un po’ di sana invidia. Pensiamo che certe cose a certi livelli non possano accadere, come se il mondo del calcio fosse un olimpo di immortali. E invece non è così, non esistono déi ma solo uomini come altri. 




In questa settimana abbiamo assistito al dolore dei tuoi compagni di squadra, che adesso non avranno più i tuoi consigli e le tue indicazioni da capitano. Abbiamo assistito al dolore di tutto il mondo del calcio, troppo spesso concentrato sulle polemiche e sempre meno attento a ricordarsi della sua vera essenza, quella di un semplice gioco nel quale un pallone rotola per entrare dentro a una porta. Quel pallone che tu cercavi di tenere il più lontano possibile dalla tua, spazzandolo di testa e appoggiandolo ai tuoi compagni con il tuo sinistro educato. Chissà quanti pensieri avrai tolto ai tuoi portieri, quanti gol evitati e quanti sospiri di sollievo per i tuoi tifosi. Ma anche i gol segnati, ché ogni tanto ti piaceva anche gonfiarla la rete. Una piazza viola l’altro giorno ti ha dato l’ultimo saluto, fra applausi e lacrime che era impossibile non scendessero. D’altronde bastava guardare la tua faccia pulita e il tuo costante sorriso sereno dentro e fuori dal campo per capire quanto fossi uomo prima che calciatore. Sorrisi che, senza retorica, sono sempre più rari e che dovrebbero essere più spesso presi da esempio per i piccoli che di questo gioco sono appassionati ed affascinati. Facce pulite che dovrebbero valere più dell’ultima moda di esultare o di allacciarsi le scarpette. 

Oggi la giostra del calcio riprenderà il suo corso, perché lo show deve continuare e la vita deve continuare a scorrere. Difficile da capire, difficile da accettare. Quello che è sicuro è però il pensiero che oggi e domani volerà a te, al di là del semplice minuto di silenzio. Così come è sicuro che tu guarderai giù compagni, avversari e tifosi con lo stesso sorriso che ti ha sempre accompagnato. E mentre l’arbitro fischierà il calcio di inizio, scenderai in campo anche tu. Lassù, a marcare gli angeli. 

lunedì 5 marzo 2018

LA PANCIA DEGLI ELETTORI E L'ELITISMO DEL PD

Abbracci, larghi sorrisi e flash di fotografi senza sosta: è questa la cornice che ha visto il voto del 4 marzo incoronare Luigi Di Maio e Matteo Salvini come vincitori assoluti delle politiche 2018. Il primo partito e la prima forza della coalizione del centrodestra (con quest’ultima che, ricordiamolo, grazie a Forza Italia e Giorgia Meloni ha raggiunto il 37% delle preferenze contro il 32% dei cinque stelle e il lontano 23% del centrosinistra) si ritrovano così ad essere gli attori politici protagonisti della prossima legislatura, almeno stando ai numeri che ne hanno sancito la vittoria. 


Immagine da Termometropolitico.it 


Legislatura che dovrà quindi tenere conto di un governo dalle larghe intese generato da queste due realtà che rappresentano, per motivi diversi, il ribaltamento della politica moderata a favore di quella estremista e populista. 

Alessandro Di Battista e Luigi Di Maio dopo le prime proiezioni degli scrutini



Estremista in senso di ribellione, di insofferenza da parte dei cittadini e dell’opinione pubblica verso i partiti tradizionali. Populista nel senso di recupero di una sovranità popolare che sarebbe andata persa nel corso delle ultime legislature a causa delle ingerenze dell’Europa. In questo senso l’affluenza rappresenta un dato importante: è stata superiore al 73%, il che testimonia la volontà da parte dei cittadini di dire la propria. Se la Lega ha sbaragliato le urne al nord, il M5S ha fatto incetta di voti al sud, specialmente in Puglia, dove le dichiarazioni pro cinque stelle da parte del Presidente della Regione Michele Emiliano hanno sicuramente contribuito ad affossare il PD. 


Immagine da Quotidiano.net

Emiliano però è solo un esempio di come il centrosinistra sia riuscito, ancora una volta, a farsi del male da solo. Se il governatore di una Regione va - nemmeno troppo velatamente - contro il proprio partito, resta da chiedersi cosa ci sia da stupirsi di fronte al pessimo risultato che il PD di Renzi è riuscito a portare a casa. Dimissioni o non dimissioni da parte del segretario (le quali sono arrivate puntuali, proprio come dopo la sconfitta al referendum dello scorso anno), è chiaro come la fuga della sinistra storica per fondare Liberi e Uguali altro non poteva essere che un presagio di sconfitta. Su tutti i fronti. 




Il PD ha perso ormai da tempo la sua base elettorale radicata nel territorio, da sempre forza della sinistra. Renzi ha probabilmente commesso l’errore di personalizzare troppo il partito e oggi si ritrova a fare i conti con una rottamazione della vecchia guardia che si è rivelata essere un boomerang: sembra solo di ieri il 40% raggiunto nel 2014, risultato straordinario che, col senno di poi, si può dire mascherasse le numerose e profonde crepe esistenti fra l’elettorato di sinistra e quello più centrista. Due anime parallele ma non complementari, frutto di un’unione di idee diverse che nella teoria doveva rappresentare quel senso di democrazia alla base del nome stesso del partito ma nella realtà troppo distanti per rappresentarne la forza. 

La progressiva fuoriuscita dei vari Civati, D’Alema, Grasso e Bersani ha portato via la fedeltà elettorale al partito che la base popolare esprimeva attraverso il più classico dei voti di appartenenza. Il centrosinistra si è frastagliato, si è fatto la guerra in una campagna elettorale poverissima di contenuti e carica, al contrario, di frasi fatte, luoghi comuni, lotte fratricide e malcontenti. Il populismo di Salvini e di Di Maio, con la loro antipolitica, ha fatto presa su questa insofferenza popolare, andando a infliggere il colpo di grazia al Partito Democratico dilaniando proprio una delle sue ferite più grandi: le continue liti interne e l’incapacità di una comunanza di intenti, almeno ai fini di una compattezza di facciata. 

Cosa che è invece riuscita a fare il centrodestra grazie alla triplice alleanza firmata Salvini, Meloni e Berlusconi. Quest’ultimo esce sconfitto dallo scontro interno con il Matteo leghista, ma ancora una volta dimostra come quello di destra sia un elettorato nostalgico in grado di compattarsi attorno a un ideale o a uno scopo. Nonostante la sentenza che gli impedisce di essere candidabile, Berlusconi è riuscito a risvegliare un 14% di fedeli forzisti risultati fondamentali ai fini degli scopi di coalizione: affossare Renzi, stare davanti al Movimento 5 Stelle e candidarsi alla leadership di Palazzo Chigi. 



Immagine da Rainews.it


Il voto di domenica ci riporta al voto di protesta, all’antipolitica che dei contenuti dei programmi elettorali se ne fa un baffo. D’altronde, come si diceva prima, questa è stata forse la campagna elettorale più scarna e sterile di sempre: nessun confronto televisivo, nessuna discussione costruttiva, nessuna ricerca di punti di contatto. Obiettivi ricercati, almeno in parte, dal solo Renzi, la cui strategia di elencare le buone cose fatte dal suo governo e da quello Gentiloni si è persa nel vuoto di un elettorato incattivito e sordo. Renzi si è così ritrovato di fronte ad un muro di gomma, ostile nel far rimbalzare indietro ogni buon proposito per il futuro. 

Troppo forte è stata la pancia degli elettori, intercettata inevitabilmente da chi è riuscito a toccare le corde giuste promettendo portate succulenti: reddito di cittadinanza, maggiore indipendenza dall’Europa, cambiamento della politica dal basso. Troppo debole, ancora una volta, è stata invece l’anima intellettuale del centrosinistra, che la politica con la P maiuscola la vuole sì fare, con il risultato però di perdersi nel classico specchietto per allodole finendo per parlare solo a se stesso e al proprio circolo di narcisi che ne sanno di più. Un fare elitario che si dimentica però della pancia degli elettori, che nelle cabine elettorali, scheda e matita in mano, la differenza la fa eccome. 



Per Renzi è una seconda sconfitta pesante e il progetto di un grande partito in grado di tenere insieme centrodestra e centrosinistra ha finito per strapparlo in due una volta che queste due fazioni si sono troppo polarizzate. Il ruolo di opposizione che il PD ricoprirà nella prossima legislatura sarà l’occasione per recuperare la propria identità. O meglio, per capire in quale direzione vuole andare e a chi vuole davvero parlare.

domenica 18 febbraio 2018

La pochezza di contenuti di Di Maio e del Movimento 5 Stelle

Luigi Di Maio, leader politico e candidato premier del Movimento 5 Stelle alle prossime elezioni del 4 marzo, è stato ospite della redazione del quotidiano torinese La Stampa per una video intervista a 360° su quelle che sono le intenzioni pentastellate circa il prossimo governo e il futuro del Belpaese. 





Un'intervista che ha avuto luogo a distanza di pochi giorni dallo scandalo che ha colpito Di Maio & Co. e che ha visto "alcuni parlamentari del Movimento truffare il partito non versando o fingendo di versare la quota di stipendio che tutti gli eletti del M5S sono tenuti a versare in un fondo per il microcredito gestito dal ministero dell’Economia", come recita Il Post in questo articolo che potete leggere qui. Sempre Il Post sottolinea come sarebbero almeno dieci i parlamentari coinvolti, i quali "avrebbero evitato di versare in tutto 1,4 milioni di euro, su un fondo di poco più di 20. Il Movimento ha ammesso alcune irregolarità e ha annunciato sospensioni ed espulsioni di tutti i parlamentari coinvolti".

Il M5S ha subito sottolineato, attraverso questo post sul proprio blog, come il Movimento abbia versato "23,4 milioni di euro derivanti dal taglio dei propri stipendi personali. Un dato che possiamo condividere con grande orgoglio". Un dato certificato che però racconta una parziale verità e che pone la questione da un altro punto di vista, forse ben più importante: quanto accaduto mette in discussione l'identità politica e sociale del Movimento, la quale si sgretola come neve al sole di fronte all'evidenza dei fatti.Se gli albori pentastellati annunciavano infatti la nascita di un Movimento in grado di essere diverso rispetto alla corruttibilità della politica e più vicino ai cittadini e alle loro necessità, la realtà ci presenta invece oggi una forza politica che, a differenza di quanto annuncia ormai da anni di fronte alle telecamere, altro non è che parte integrante delle politica stessa e del suo modus operandi troppo spesso fallace.  

Cavallo di battaglia è sempre stato denunciare la corruttibilità altrui, vedi Maria Elena Boschi, sulla bocca dei pentastellati in ogni comizio o trasmissione televisiva* (vedi nota sotto). Ma se la politica è un sistema malato a causa delle mele marce che ne fanno parte, allora anche il Movimento 5 Stelle è a sua volta malato a causa delle mele marce che ne fanno (e ne faranno) parte. Ergo, a discapito di una verginità sbandierata orgogliosamente, il M5S non è diverso dal resto dei partiti che denunciano. 

Ma torniamo all'intervista di Di Maio a La Stampa. Quello che preoccupa è soprattutto la pochezza di contenuti che il Movimento - e il candidato - propongono. La linea politica pentastellata è sempre stata quella di denunciare gli errori altrui senza però fornire grandi alternative: insomma, una logica distruttiva tendente a fare terra bruciata del "sistema" ma sterile dal punto di vista delle proposte per cambiare veramente la rotta. 

Lo si evince in primis dal programma proposto in vista della campagna elettorale, il quale si potrebbe definire, senza troppi giri di parole, una brutta figura. Sempre Il Post ci racconta comel'elenco di proposte fatte dal M5S sia in realtà una serie di plagi, con il risultato di un programma elettorale composto da studi e analisi copiati, interrogazioni parlamentari del PD (sì, proprio quel partito che dovrebbe rappresentare il male assoluto della politica), articoli di giornale, articoli di Wikipedia e addirittura un pezzo di una tesi di laurea. Qui potete comunque leggervi tranquillamente tutto nel dettaglio e farvi la vostra idea. 

L'intervista di Di Maio a La Stampa è un tutto e niente che testimonia, ancora una volta, la strategia statica del M5S di stare con un piede in due scarpe, al fine di riuscire a intercettare il maggior numero di scontenti possibili, sia a destra che a sinistra. E un esempio è la non presa di posizione - o peggio, il continuo cambio di posizione - su argomenti come l'immigrazione e l'Europa. Una strategia che vuole gli altri fare la prima mossa e il M5S comportarsi di conseguenza. 

Alla domanda del vicedirettore vicario de La Stampa, Luca Ubadelschi, circa la possibilità di una candidatura di Torino alle Olimpiadi invernali del 2026, la risposta di Di Maio è stata: "In realtà non esiste ancora un piano economico, se non sbaglio. So che la Camera di Commercio, mi pare, stava per fare qualcosa. Il Movimento comunque si rimetterà alle decisioni della Sindaca Appennino". Insomma, non abbiamo ancora chiara la situazione, ma va bene qualunque cosa deciderà la Sindaca, che conosce il territorio e ha le relazioni per seguire il progetto Olimpiadi. Non proprio il massimo della pianificazione per una realtà politica che vorrebbe governare il Paese. 

Una cosa è però chiara a Luigi Di Maio: se il Movimento sarà il primo partito e ci sarà da dialogare con gli altri per formare un governo, il premier dovrà essere lui. Su questo non si discute. 




*la settimana scorsa stavo seguendo la trasmissione Otto e mezzo di Lilli Gruber, con ospiti Sandro Gozi, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri con delega agli affari europei nel Governo Renzi e in quello Gentiloni (e ricandidato alle prossime elezioni con il PD), e Dino Giarrusso, ex giornalista de Le Iene candidato con il M5S. Al minuto 23 del video che trovate sotto si parla di debito pubblico e se sia aumentato o meno sotto il centrosinistra. Gozi cerca di spiegare come conti il rapporto fra debito e crescita, spiazzando evidentemente Giarrusso che per attaccare nuovamente sposta il discorso sulla candidatura di Boschi come capolista: mossa infelice che evidenzia, ancora una volta, la pochezza di contenuti pentastellati fuori dagli slogan imparati a memoria.