domenica 25 gennaio 2015

LA TECNICA SOCIALE DELL'INFORMAZIONE DI FATTORELLO

Ogni giorno, in molteplici occasioni e circostanze, anche quelle più quotidiane o bizzarre, comunichiamo. Con gli amici, con i parenti, con il compagno di banco a scuola, con il fidanzato o la fidanzata, la moglie o il marito, con gli sconosciuti. Comunichiamo a parole, ma anche a gesti. Comunichiamo attraverso la comunicazione verbale e anche attraverso quella non verbale. Insomma, proviamo a farci capire in diversi modi, con l'intento di far arrivare il nostro messaggio nella maniera più chiara possibile. Ma noi, che mandiamo ogni giorno messaggi di ogni genere a chiunque, ci rendiamo conto del fatto che stiamo comunicando? È quello che sostiene Francesco Fattorello nella sua Tecnica Sociale dell'informazione. La rivoluzione nella comunicazione: da target a persona (Safarà Editore, a cura di Giuseppe Ragnetti). Ma chi è Francesco Fattorello? Fattorello è stato un giornalista e uno studioso nato a Pordenone nel 1902 e morto a Udine nel 1985, ma soprattutto fu il primo docente incaricato della cattedra di giornalismo in Italia durante il periodo fascista negli anni Venti. La sua teoria comunicativa si contrappone fortemente alle varie teorie americane sulla comunicazione, come ad esempio la teoria del proiettile (o ago ipodermico) definita da Lasswell, secondo la quale i messaggi trasmessi sono come dei proiettili che colpiscono una massa di persone passive, persuadendole. Secondo tale visione, così come per molte altre teorie americane, la massa, il pubblico, sarebbe passiva, una sorta di target (bersaglio) che i mass media dovrebbero colpire a piacimento in modo da esercitare un potere persuasivo. Fattorello si discosta da questa visione, rifiutando l'idea di un pubblico composto da tanti burattini i cui fili vengono mossi da una casta, da un'élite di uomini che possiede quello che Chomsky ha definito quarto potere, il potere dei media. 

Oggi la teoria della tecnica sociale dell'informazione viene insegnata da uno degli allievi di Fattorello, il professor Ragnetti, docente all'Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo", il quale vuole ripristinare quel legame che lega il suo maestro al territorio natio, ossia il Friuli, e nello specifico Pordenone (non a caso ha tenuto una conferenza a Sacile, presso il Palazzo Ragazzoni, illustrando la teoria fattorelliana). 

La tecnica sociale è espressa anche attraverso una vera e propria formula, nella quale compaiono i termini x) (il fatto che scatena la comunicazione), SP (soggetto promotore), SR (soggetto recettore), O (l'opinione) e M (il mezzo di comunicazione). Formula che delinea quella che viene definita ragnatela sociale della comunicazione, nella quale ogni SR diventa a sua volta SP per qualcun altro all'interno della società, ad esempio apprendendo una notizia dalla radio o dalla tv e raccontandola poi agli amici al bar. Un principio che addirittura può essere applicato al successo che oggi hanno i social network nella nostra società, sempre più basata su una partecipazione e una condivisione di contenuti. 
Prof. Giuseppe Ragnetti
(Immagine tratta da
istitutofattorello.wordpress.com)

Il professor Ragnetti è anche direttore dell'Istituto Fattorello, che ha sede a Roma e che tiene viva la teoria della tecnica sociale dal 1947 attraverso corsi di comunicazione che possono essere sintetizzati con la frase Comunico ergo sum. Linea guida della tecnica è infatti quella di riportare la persona a considerarsi tale, ossia qualcosa di vivo e di attivo, in grado di pensare, opinare, comunicare e avere pari dignità con l'interlocutore. Questo è per Ragnetti un discorso molto attuale, dato che "viviamo nella società della non comunicazione. Non ci capiamo più, non comunichiamo più! Le persone in treno non parlano fra di loro, sono connesse ai loro smartphone e ai loro tablet. Siamo nella società della semplice trasmissione di contenuti!". 

mercoledì 21 gennaio 2015

THE IMITATION GAME



“Complesso, impeccabile, unico… da Oscar”. Così la rivista settimanale americana Variety ha definito The Imitation Game, il film diretto da Morten Tyldum uscito nelle sale cinematografiche italiane dal 1° gennaio. Come definire in altro modo un film impreziosito dal talento di Keira Knightley, la bella della trilogia Pirati dei Caraibi, e da quello di Benedict Cumberbatch, lodato dal New York Post per la sua “magistrale interpretazione” e candidato ai prossimi Oscar? Difficile fare meglio, forse solo Hollywood Reporter, con il suo “Avvincente e struggente. Un grande film” ha sintetizzato perfettamente l’anima di questo capolavoro del cinema, tratto dal libro di Hodges Andrew, Alan Turing. Storia di un grande enigma, che raccoglie la vita del grande matematico inglese. Un film storico, tratto da una storia vera, un intreccio di numerosi flashback la cui ambientazione è l’Inghilterra che va dagli anni Trenta agli anni Cinquanta, nel quale Alan Turing (B. Cumberbatch), il protagonista, viene assunto dai servizi segreti britannici per decifrare i codici segreti inviati dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale attraverso la macchina Enigma, insieme ad un team di matematici appositamente scelti. Fra questi Hugh Alexander (M. Goode), campione nazionale di scacchi, rivaleggerà con Turing, accettandone infine il genio e la determinazione, e Joan Clarke (K. Knightley), appassionata di matematica che guiderà e alimenterà il talento di Turing.

Obiettivo del team è decifrare i codici nazisti, al fine di permettere agli Alleati di prevederne mosse e strategie militari per vincere una guerra sanguinosa e dispendiosa. Turing è deciso più che mai a creare una macchina in grado di decifrare i messaggi criptati, ma avversità e difficoltà non mancheranno, in una lotta contro il tempo per ottenere la soluzione di Enigma e la vittoria sui tedeschi. Un film a tratti ironico, ma anche espressione di sogni, speranze e aspirazioni in una società, quella britannica ed europea, segnata da una guerra che non sembra avere fine. Un film che sa così esprimere anche malinconia, paura e dolore, specialmente nella figura di Turing, omosessuale schiacciato da una società dura nei confronti dell’omosessualità (Turing muore suicida nel 1954 a seguito di una condanna per atti osceni e un anno di terapia ormonale). 

The Imitation Game è un mix esplosivo di sentimenti e fatti storici, nei quali trovano spazio anche immagini di repertorio ritraenti grandi leader politici protagonisti della Seconda Guerra Mondiale, come Hitler, Churchill e Truman, bombardamenti ed eventi sensazionali come lo sbarco in Normandia. Un film nel quale la guerra viene letta e interpretata non attraverso la violenza delle armi ma attraverso la logica e l’intelligenza. Cosa pensereste se vi dicessero che la Seconda Guerra Mondiale fu vinta, grazie alla matematica, decifrando un codice nazista indecifrabile dal primo ideatore di quello che oggi chiamiamo computer?


martedì 20 gennaio 2015

SIAMO O NON SIAMO CHARLIE?


Le ormai note vicende di Parigi di più di dieci giorni fa hanno sconvolto la società francese e mondiale, facendo riemergere la minaccia del terrorismo islamico come non la si percepiva dall’11 settembre 2001. Ma parallelamente si è aperto un altro acceso dibattito, quello relativo alla libertà d’espressione. C’è chi sostiene che essa non debba avere alcun limite, ad esempio come scritto per il settimanale Internazionale da Philippe Ridet, corrispondente in Italia per il quotidiano francese Le Monde; c’è chi sostiene invece che Charlie Hebdo abbia passato il limite, andandosela un po’ a cercare, come sostenuto dal Financial Times in un editoriale; infine c’è chi, pur condannando apertamente la cruenta vicenda, si distacca dalla linea editoriale politicamente scorretta del periodico francese, non accettando l’offesa al credo religioso, sia esso musulmano o cristiano. #JeSuisCharlie è lo slogan che subito si è diffuso in sostegno di Charlie Hebdo, apparso su cartelli, manifesti, magliette, giornali e programmi televisivi, nelle piazze quanto sul web, ma è stato ed è soprattutto un messaggio che ha un significato ben preciso: la difesa incondizionata della libertà d’espressione come principio supremo della democrazia. Molti politici, giornalisti e semplici cittadini di tutta Europa hanno fatto proprio questo slogan identificandosi con il suo messaggio: “essere Charlie” significa sostenere, apertamente e in maniera convinta, la libertà d’espressione. Una libertà d’espressione che legittima anche una libertà di satira indipendente dal politicamente corretto e dal rispetto della sensibilità del credo religioso (questione sulla quale si potrebbe aprire un dibattito molto ampio, anche alla luce della regolamentazione giuridica della satira stessa). Eppure, a mente fredda, a distanza dai fatti di Parigi, sorge spontanea una domanda: ma siamo davvero tutti Charlie oppure no? Siamo cioè davvero a favore della libertà d’espressione senza confini e senza limiti, come la definiscono Ridet e molti suoi colleghi e come l’hanno dipinta molti all’interno dell’opinione pubblica? Quindi, cosa significa soprattutto che la libertà d’espressione “non deve conoscere confini” (cit. Ridet)? Significa, ad esempio, che anche l’insulto, la blasfemia e le aggressioni verbali potrebbero venire ad essere legittimati, con buona pace del rispetto, del dialogo e dei vari reati di vilipendio, diffamazione e reputazione (una libertà d’espressione senza limiti rende difficile definire un insulto o un’offesa, dato che essi sussistono quando si supera il limite del rispetto, del decoro e del buon senso). 

Quindi, cosa significa “essere tutti Charlie Hebdo”? Davvero siamo pronti a rispettare il pensiero altrui e il diritto ad esprimerlo, anche quando non ci va bene? In realtà sembrerebbe di no. Sabato a Milano si è tenuto un convegno, dal titolo “Contro i falsi miti di progresso”, tenuto da Mario Adinolfi, Costanza Miriano, Maurizio Botta e Marco Scicchitano, i quali hanno argomentato il loro punto di vista a riguardo della difesa della famiglia tradizionale, la loro contrarietà alla pratica dell’utero in affitto e la loro convinzione del diritto di un bambino ad avere un padre e una madre. Insomma, hanno organizzato un meeting aperto per confrontarsi su una tematica, una cosa normale in un paese democratico e rispettoso delle varie e differenti posizioni. Eppure tale convegno ha dovuto subire beceri attacchi mediatici da parte di Repubblica, che l’ha definito un convegno omofobo in quanto contro gli omosessuali (manipolando anche il numero di partecipanti al convegno, perché non sia mai che si sappia in giro che tremila persone la pensavano come Adinolfi, la Miriano e compagnia bella), senza che gli omosessuali venissero invece mai etichettati, additati e addirittura menzionati, e con tanto di disturbatore istruito ad hoc dalle Iene salito sul palco per provocare. 

Gli atti vandalici contro l'insegna
de La Croce


Nei pressi della redazione de La Croce, inoltre, un’insegna del quotidiano diretto da Adinolfi è stata presa a sprangate, mentre la sede della redazione di Tempi, periodico anch’esso di stampo cristiano, è stata imbrattata dalla scritta “Tempi merde omofobe e sessiste”, con tanto di escrementi lasciati in bella vista. Ma naturalmente gli organi di stampa e di informazione non parlano di tutto ciò, se non in maniera strumentale. Gli attacchi a Charlie Hebdo erano partiti con minacce, poi con una bomba molotov, infine con un atto di terrorismo in cui hanno perso la vita dodici persone. Charlie Hebdo era ed è un giornale critico nei confronti della religione, La Croce e Tempi invece no, ma a prescindere da questo, in entrambi i casi rappresentano l’espressione di un pensiero e sono pertanto uguali, con il medesimo diritto a dare voce all’opinione pubblica. Eppure nessuna manifestazione di solidarietà, nessun hashtag #IoSonoTempi o #IoSonoLaCroce. Quindi, siamo davvero tutti Charlie Hebdo? Siamo davvero a favore della libertà di pensiero in ogni caso, in ogni dove, per tutto e per tutti? Oppure per la libertà d’espressione ci sono figli e figliocci? 

martedì 13 gennaio 2015

L'URLO DI CR7

Immagine del Corriere dello Sport
Ronaldo, Messi, Messi, Messi, Messi, Ronaldo, Ronaldo. Questa la sequenza dei vincitori del Pallone d'Oro negli ultimi sette anni, dal 2008 al 2014. Mai nella storia del più importante premio calcistico individuale si era vista una cosa simile: due soli giocatori a contendersi il premio senza rivali. L'anno scorso Ribery e quest'anno il portiere tedesco, nonché Campione del Mondo, Neuer, sono stati elevati a possibili sfidanti del duo argentino-portoghese per la vittoria del premio, rivelandosi però alla fine semplici comparse in una sfida che vedremo portarsi avanti almeno per altri due/tre anni. Già, perché di vera e propria sfida si tratta. Una sfida personale, quella fra il talento argentino e quello portoghese, nella quale i club di appartenenza, Barcellona e Real Madrid, sono semplici teatri di esibizione. Messi e Ronaldo hanno vinto tutto: campionati e coppe nazionali, competizioni europee e internazionali, premi personali, fra i quali la Scarpa d'Oro e appunto il Pallone d'Oro. Hanno battuto record su record, hanno conquistato milioni di tifosi e fatto la fortuna dei loro club, fra sponsorizzazioni, diritti di immagine, clausole rescissorie e, fra l'altro, meriti sportivi.

Una spirale di gol, premi, contratti e scatti fotografici che sembra avere ancora vita lunga, e che ormai ha lasciato un solco indelebile nella storia del calcio. Messi e Ronaldo sono diventati due istituzioni, due divinità calcistiche senza pari che, in uno sport sempre più votato al mito del calciatore star, hanno superato anche pietre miliari come Ronaldo (il Fenomeno) e Ronaldinho. Messi e Ronaldo, Ronaldo e Messi.

Immagine tratta da
www.sportcafe24.com
Due personalità diverse, uno più tranquillo e riservato, l'altro più spaccone ed esibizionista, ma tutti e due con un grande orgoglio, una grande fame di vittorie e una reciproca voglia di prevalere sull'altro. Il dibattito su chi dei due sia il più forte è in corso ormai da tempo e non ha ancora dato una sentenza definitiva, semmai la darà. C'è chi sostiene che Ronaldo sia più forte perché più completo, grazie ad un fisico più esplosivo e ad una maggiore abilità nel calciare con entrambi i piedi e nel colpo di testa, senza dimenticare il fatto di essere riuscito a fare la differenza sia nel campionato spagnolo che in quello inglese, al contrario di Messi che ha sempre e solo giocato in Spagna. Altri danno maggior merito alla Pulce per la sua tecnica raffinata, i suoi dribbling e le sue traiettorie imprendibili, oltre che per il maggior numero di trofei vinti rispetto al portoghese.


Insomma, la sfida è più che mai aperta, e la vittoria di ieri di Ronaldo non fa che alimentarla, portando la stella del Real ad un solo Pallone d'Oro da Messi. Durante la cerimonia di premiazione di ieri, i due si sono scrutati e studiati, proprio come nei campi da calcio: Ronaldo ha ritirato il premio segnando un punto a suo favore e sfidando apertamente il suo rivale Messi, dichiarando la sua volontà di raggiungerlo a quota quattro riconoscimenti. L'ha fatto urlando la sua grinta, la sua sicurezza di sé e la sua spavalderia, mentre lo sguardo di Messi raccoglieva ancora una volta la sfida.

giovedì 8 gennaio 2015

L'ATTENTATO A CHARLIE HEBDO E LA LIBERTÀ DI SATIRA


Rappresaglie contro numerose moschee e una sparatoria a sud di Parigi, nella quale è morta una poliziotta. Queste sono le conseguenze dell’attentato avvenuto ieri contro la sede del settimanale Charlie Hebdo, che ha visto due franco-algerini irrompere nella sede del giornale, incappucciati e armati, durante una riunione di redazione, facendo fuoco contro il direttore, Stephan Charbonnier, detto Charb, e i tre più noti vignettisti, Cabu, Tignous e George Wolinski.
(Immagine tratta da www.primissima.it)
Un attacco studiato nei dettagli e legato all’estremismo islamico: i due attentatori infatti hanno fatto irruzione urlando "Allah u Akbar"(Allah è grande), con l’intento di vendicare il profeta Maometto, offeso dalle numerose vignette satiriche pubblicate dal giornale parigino nel corso di questi anni (un quarto d’ora prima dell’attentato era stata inoltre twittata una vignetta riguardante al-Baghdadi, leader dell’ISIS). Il giornale era già stato minacciato a seguito delle vignette pubblicate nel 2006 che avevano scaturito una forte polemica in tutta Europa (in Italia il leghista Calderoli mostrò in tv una maglietta raffigurante una della vignette) e in tutto il mondo musulmano. Nel novembre del 2011 un incendio doloso distrusse la redazione del giornale, tanto da spingere le autorità a mettere sotto protezione l’edificio ospitante la sede di Charlie Hebdo. Protezione che non è però bastata ieri, quando due poliziotti sono stati freddati senza esitazione dai due attentatori. Tale dimestichezza con la morte e la violenza ha fatto subito pensare a due uomini addestrati, come si è poi certificato a seguito della loro identificazione: i due sarebbero riconducibili infatti ad Al Qaeda. L’attentato ha quindi una palese natura religiosa, per l’ennesima volta legata alla violenza, che rischia di far scaturire una sorta di guerra di religione. Il rapporto fra l’Islam e l’Occidente è una continua escalation di tensione e violenza, nella quale ne fanno le spese la società civile e quei musulmani che con il terrorismo e la jihad non vogliono avere nulla a che fare: poco tempo fa a seguito delle uccisioni degli ostaggi da parte dell’ISIS in nome dell’Islam molti musulmani avevano alzato la loro voce contro tale violenza, attraverso la campagna #NotInMyName. Grido che si sta ripetendo in queste ore, ma che deve fare ora i conti con una inevitabile crescente paura e diffidenza da parte degli occidentali: il fatto che i due attentatori siano nati e cresciuti in Francia fa capire come ormai Al Qaeda e l’ISIS trovino terreno fertile proprio in quell’Occidente che vogliono combattere, con l’obiettivo di distruggerlo dall’interno. In tutto questo può inserirsi facilmente un forte nazionalismo: in Italia il leghista Maroni ha ribadito ancora una volta la volontà di sospendere gli accordi di Schengen, mentre in Francia, paese europeo con la più alta percentuale di cittadini musulmani, a seguito dell’attentato il Front National di Marine Le Pen potrà rafforzare il suo consenso. Un attentato che è il più grave negli ultimi trent’anni della storia francese e che si aggiunge ai recenti fatti di Sydney e a quelli di Bruxelles dell’anno scorso, senza dimenticare quelli degli scorsi anni negli USA, a Londra e a Madrid. La Francia sta vivendo il suo 11 settembre, con immagini terribili che stanno facendo il giro del mondo in televisione quanto sul web, in particolare se si pensa all’agghiacciante uccisione del poliziotto (tra l'altro musulmano) davanti alla sede di Charlie Hebdo. Le autorità politiche di tutto il mondo hanno condannato fortemente l’attentato, da Obama a Hollande, fino a Putin, Renzi, Bergoglio e la Merkel, con la conseguente ed inevitabile allerta terrorismo. Anche la società civile si è mobilitata, con manifestazioni di solidarietà nelle grandi piazze europee: Parigi, Marsiglia, Lione, Stoccolma, Vienna, Roma, Milano, Berlino, Londra e Bruxelles sono state sedi di numerose veglie e fiaccolate, unite dal messaggio solidale #JeSuisCharlie, “Io sono Charlie”.
(Immagine tratta da www.nydailynews.com)
Tutti in difesa della libertà di espressione, della libertà di stampa e della libertà di satira, principi essenziali della democrazia. Ma c’è un però. Premessa la sacrosanta libertà di satira, viene da chiedersi quanto essa possa spingersi oltre quando si parla di religione, qualsiasi religione. La religione è sempre stata e sempre sarà oggetto di contese e divisioni, perché troppo spesso ricondotta ad una visione ideologica (quella stessa visione ideologica che porta agli attentati terroristici): il Financial Times ha pubblicato un editoriale nel quale si definisce “stupido” l’atteggiamento editoriale di Charlie Hebdo, in quanto provocatorio nei confronti dei musulmani. Una dichiarazione forte, ma che può e deve far riflettere: siamo sicuri che ritrarre una divinità in modo provocatorio sia semplice libertà di espressione e non anche blasfemia e offesa per intere comunità religiose? Di sicuro c’è solo che alle parole e alle vignette si è risposto con le armi, la violenza e la morte.