Se pensi a Camilleri pensi al commissario Montalbano e se pensi al commissario Montalbano pensi a Camilleri. Ma Andrea Camilleri non è solo l'inventore di un personaggio popolare che tanto bene incarna la Sicilia e il fascino del Meridione e delle sue usanze: Camilleri è anche un pozzo di conoscenze e uno scrittore che, qualunque cosa racconti, ti tiene incollato alle pagine che magistralmente riempie. E allora può essere che ti ritrovi a sfogliare un piccolo saggio, La bolla di componenda, nel quale aneddoti e storie raccontano una realtà spesso triste per la nostra amata Italia: quella del compromesso, del tacito accordo, dell'interesse nascosto, del patto fra gentiluomini (volendoli così chiamare).
Eccone un piccolo esempio, una storia che Camilleri racconta all'inizio del saggio, il cui protagonista è Giorgio Vecchietti, allora direttore del TG2.
<<Come saprai (riferendosi a Camilleri, ndr), per un certo periodo sono stato direttore del telegiornale della seconda rete, di area laica. Il mio proposito era di fare un giornale più mosso e vivo rispetto a quello della prima rete, che era accademicamente governativo. Così, cominciai col togliere di mezzo quei servizi che mi parevano minori e di nessun interesse nazionale. Abolii, per esempio, quelli che si riferivano al "taglio del nastro", oppure alla "posa della prima pietra". Cioè a dire: minuti preziosi del notiziario venivano dedicati a un sottosegretario che posava la prima pietra dell'erigendo canile municipale a Piovasco di Sotto o a un onorevole di riguardo che tagliava il nastro di una nuova mulattiera tra Pantano e Pozzanghera, ridenti paesini delle montagne friulane. Erano chiaramente servizi sollecitati dal politico locale per esaltarne l'immagine o per scopi puramente elettorali. Ebbi qualche rimostranza ma la cosa finì lì. Un altro tipo di servizio che abolii era quello che si poteva intitolare "Brillante operazione della Guardia di Finanza". La sequenza visiva era sempre la stessa: una motovedetta della Guardia di Finanza si accostava a un natante, nave o peschereccio che fosse, i militi andavano all'arrembaggio, dalla stiva cominciavano ad emergere casse di sigarette di contrabbando, sempre e curiosamente della stessa marca (ma questo lo visualizzai dopo l'incontro che sto per dirti) che venivano poste sotto sequestro. Qui non potevano esserci rimostranze e infatti non ce ne furono: i servizi tranquillamente sparirono. Qualche tempo dopo mi stavo dirigendo a piedi verso casa nei pressi del Pantheon, era un mite ottobre romano che proprio invogliava alla passeggiata. Stavo percorrendo una via molto stretta quando dietro di me lampeggiarono i fari di un'auto. Credendo che volesse strada, mi accostai al muro. Invece, arrivata alla mia altezza, l'auto, una macchina di gran lusso, si fermò dolcemente, vidi aprirsi lo sportello posteriore e sentii una voce civilissima e suadente invitarmi:
"Dottor Vecchietti, mi permette di accompagnarla a casa?"
Mi sembrò scortese rifiutare. Montai e la macchina si mosse lentamente. Dentro aleggiava l'odore di una raffinata colonia, le fodere erano di cuoio autentico. Pur con la poca luce, mi resi conto di non aver mai visto prima l'uomo che mi sedeva accanto.
"Ci conosciamo?" domandai.
"Lei non mi conosce. Io invece la conosco di fama".
"Oddio, di fama!" mi schermii.
Ci fu una pausa brevissima. Poi quel sessantenne urbano e distinto venne al dunque.
"Il nostro incontro non è dovuto al caso. L'ho fatta seguire dal mio autista fin dal momento in cui è uscito dall'ufficio. E non era mia intenzione disturbarla né a casa né al suo posto di lavoro. Avrei da sottoporre un piccolo problema alla sua squisita cortesia".
Non mi stava chiedendo un favore. Agiva da inglese come inglese era la stoffa del suo vestito. Proseguì senza darmi il tempo di un commento.
"Lei ha dato ordine ai suoi redattori di non effettuare né trasmettere servizi dedicati all'eliminazione del contrabbando di sigarette. Vorrei farle capire come questa sua disposizione finisca col ledere precisi interessi".
"Lei appartiene alla Guardia di Finanza?" sbottai, alquanto irritato.
Il signore mi guardò stupito.
"Io? No, lei è del tutto fuori strada. Cercherò di spiegarmi meglio che posso. Dunque, il Comando della Guardia di Finanza di, mettiamo, Barletta, riceve una soffiata come si dice in gergo, una segnalazione anonima. Però così circostanziata da essere degna di fede. In una data precisa, alle ore ics di notte, a tante miglia dalla costa, una nave contrabbandiera sarà in attesa di mezzi di trasbordo della merce. Contemporaneamente con lo stesso sistema viene avvertito il corrispondente locale del telegiornale, il quale tanto si mette a brigare che alla fine vien fatto salire a bordo di una motovedetta. Anche lui deve fare il suo mestiere, no? L'operazione ha successo, il tutto viene filmato e trasmesso. E così ognuno ha avuto il suo tornaconto. Mi sono spiegato?"
"Lei si sarà spiegato benissimo" ribattei "ma io non ho capito niente lo stesso".
Paziente, sempre sorridente, il signore ripigliò a parlare.
"Mi segua con attenzione, per favore. Per merito della cosiddetta brillante operazione, le guardie impegnate ricevono elogi, encomi e promozioni. Soddisfatti, riposano un poco sugli allori, quel tanto che basta perché il contrabbando possa, in quella zona, continuare indisturbato. È chiaro, ora?".
"Chiarissimo. A rimetterci è solamente la società che produce sigarette".
Il signore si permise una risatina educata.
"Sta scherzando, vero? L'operatore televisivo ha filmato casse che, contenendo merce di contrabbando, dovrebbero essere rigorosamente anonime. Invece, guarda caso, su ogni cassa c'è stampata, a caratteri cubitali, la marca delle sigarette. Quando quelle immagini passano in televisione, equivalgono, egregio amico, esattamente alla spesa che si sarebbe dovuto sostenere per un carosello pubblicitario".
Rimasi senza parole. Eravamo intanto arrivati nella strada dove avevo casa.
"Io abito al numero..." cominciai.
"Lo sappiamo" disse il signore stringendo calorosamente fra le sue la mia mano. "Ci rifletta, dottor Vecchietti. Non spezzi un equilibrio, non rompa una componenda faticosamente raggiunta".
"Componenda?".
"Sì, un patto non scritto, un gentleman's agreement".
Giustizia, misericordia, giovani e cultura. Queste le parole chiave per descrivere la IX edizione dell’evento culturale «La Libreria Editrice Vaticana a Pordenone. Ascoltare, leggere, crescere» che si è tenuto nella città friulana dal 17 al 29 ottobre 2015. Una rassegna ormai diventata abituale e che vede la LEV in sintonia con la cittadinanza pordenonese attraverso una sensibilizzazione in grado di toccare diverse tematiche legate all’attualità grazie anche alla presenza di ospiti illustri.
Se l’anno scorso la rassegna era stata impreziosita dalla presenza di p. Antonio Spadaro, direttore de La Civiltà cattolica, e dal card. W. Kasper, presidente emerito del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, quest’anno Pordenone ha potuto accogliere, fra i tanti ospiti, personaggi del calibro di don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale e già ministro della Giustizia e il card. Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio della cultura.
Il tema della giustizia è stato affrontato da Flick nel corso di alcuni appuntamenti in occasione dei quali l’ex guardiasigilli ha incontrato gli studenti del territorio spiegando loro il concetto di dignità presente nella Costituzione e denunciando un luogo comune oggi imperante: quello di essere spesso indignati verso qualcosa senza poi riconoscere la dignità nei confronti delle persone fragili ed emarginate.
Giovanni Maria Flick, ex Ministro della Giustizia
In merito al concetto di corruzione l’ex ministro della Giustizia – che nel corso della rassegna ha anche presentato il suo libro Elogio della dignità (pubblicato per i tipi della LEV) – ha posto l’accento su una urgente necessità di semplificazione delle leggi accompagnata da un recupero del senso di legalità: «Solo così, grazie anche a una efficace prevenzione, sarà possibile combattere la corruzione» – ha detto.
La parola «misericordia», perno del Giubileo indetto da papa Francesco a partire dal prossimo 8 dicembre, è risuonata in uno dei momenti più caratterizzanti della rassegna, con la consegna della corona del rosario inviata da Bergoglio a ciascuno dei 70 detenuti del Carcere di Pordenone. Per Flick «la detenzione ormai non può essere l’unica pena» e citando la Costituzione ha poi ribadito come «la permanenza nel carcere per le persone deve avere una reale finalità educativa».
No a una comunicazione autistica
Per don Virgilio Balducchi, ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, si deve superare il luogo comune che le pene severe siano sinonimo di tranquillità e sicurezza per la popolazione e proprio per questo ha dichiarato che il Governo più che destinare tutte le risorse disponibili a ristrutturare le carceri deve pensare anche a finanziare le iniziative alternative. Su questa linea anche don Gino Rigoldi, fondatore di Comunità nuova e cappellano del Carcere minorile Beccaria di Milano, che ha annunciato un progetto – in programma dal prossimo gennaio – di fornire un salario minimo di reinserimento da destinare ai giovani poveri che escono dal Beccaria per evitare che ritornino a delinquere.
Don Luigi Ciotti, fondatore di Libera
La IX edizione della LEV a Pordenone ha avuto un particolare occhio di riguardo per i giovani: oltre agli incontri con Flick, infatti, erano in programma altri due appuntamenti molto importanti con don Ciotti e con il card. Ravasi. In un teatro comunale gremito da oltre 500 persone – in occasione del bicentenario della nascita di san Giovanni Bosco – don Ciotti ha lanciato un messaggio eloquente ai giovani, invitandoli ad «avere coraggio perché la vita, specialmente in questo momento, ci chiede di osare». Non poteva mancare poi un riferimento al pericolo della corruzione e dell’illegalità: «È necessario mantenere alta la guardia perché le mafie sono ancora più forti in questo periodo di crisi finanziaria. Bisogna educare i giovani a essere buoni cristiani e onesti cittadini, perché le mafie vivono e crescono in mezzo a noi, cambiano, penetrano e hanno continuità nel cambiamento arrivando ovunque facendo affari».
Card. Gianfranco Ravasi,
presidente del Pontificio consiglio della cultura
Il linguaggio e la religione sono stati invece i punti toccati dal card. Ravasi che ha ricordato agli studenti l’importanza del dialogo nella ricerca di una fede autentica e non dettata dall’indifferenza e da un «autismo della comunicazione» che possono avere inevitabilmente il fondamentalismo come risultato. Ravasi ha anche tenuto una lectio magistralis presso il duomo di Pordenone dal titolo «La Bibbia: un libro di ieri e di oggi», nella quale ha definito il testo sacro «cuore della comunità credente» e «grande codice della cultura occidentale». La rassegna ha avuto anche per quest’edizione un grande successo con un’affluenza di pubblico intorno alle 5.000 persone, grazie anche a tanti altri appuntamenti che hanno permesso d’approfondire tematiche quali la sanità pubblica e privata nel rispetto della persona, l’enciclica Laudato si’ di Francesco e il diritto al cibo come diritto umano fondamentale nella prospettiva della dottrina sociale della Chiesa.
Grande soddisfazione per don Giuseppe Costa, direttore della LEV: «Il successo di questa IX edizione è la dimostrazione che la formula adottata dagli organizzatori è incoraggiante e dà inoltre forti motivazioni per proseguire nel percorso intrapreso». Il curatore dell’evento Sandro Sandrin, pensando già all’organizzazione della X edizione in programma per l’ottobre 2016, ha lanciato l’idea di allargare la presenza ormai acquisita della LEV e di ospiti significativi del mondo cattolico a esponenti dell’«editoria religiosa a livello internazionale».
"Questo
accordo è necessario per il mondo intero e per ciascuno dei nostri
paesi. Aiuterà gli stati insulari a tutelarsi davanti all'avanzare
dei mari che minacciano le loro coste; darà mezzi finanziari
all'Africa, sosterrà l'America Latina nella protezione delle sue
foreste e appoggerà i produttori di petrolio nella diversificazione
della loro produzione energetica. Questo testo sarà al servizio
delle grandi cause: sicurezza alimentare, lotta alla povertà,
diritti essenziali e alla fine dei conti, la pace. Siamo arrivati
alla fine di un percorso ma anche all'inizio di un altro. Il mondo
trattiene il fiato e conta su tutti noi".
Con
queste parole Laurent
Fabius, presidente della COP21 -
la 21esima conferenza sul clima della Nazioni Unite tenutasi a Parigi
dal 30 novembre al 12 dicembre - ha annunciato il raggiungimento di
un accordo fra i leader di 195 Paesi dopo 13 giorni di negoziati. Un
accordo per niente scontato e da molti definito "storico"
per i contenuti importanti e anche per il valore giuridicamente
vincolante.
Ecco
cosa prevede in sintesi l'accordo, il cui testo integrale - tradotto
in sei lingue - si può trovare qui.
-
Il punto più importante è sicuramente quello di mantenere
l'aumento di temperatura inferiore ai 2 gradi, con l'impegno a
cercare di compiere sforzi per arrivare entro 1,5 gradi.
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L'obiettivo è quindi quello di controllare il riscaldamento
globale, ossia l'aumento della temperatura media annua dell'aria
sulla superficie del pianeta.
-
Di conseguenza altro punto fondamentale è l'impegno a non
aumentare le emissioni di gas serra raggiungendo nella
seconda metà del secolo il riassorbimento naturale dei nuovi gas
serra prodotti.
- Per
fare ciò in maniera costante è stato poi deciso di controllare
eventuali progressi ogni 5 anni tramite nuove Conferenze.
-
Infine stanziare 100 miliardi di dollari ogni anno ai Paesi
più poveri al fine di permettere loro di sviluppare fonti
di energia meno inquinanti.
Un
accordo che non riguarda solo dinamiche ambientali e legate
all'inquinamento ma anche sociali: numerosi sono infatti gli
impatti sociali legati al cambiamento climatico, come ad esempio
le migrazioni. Molte sono infatti le problematiche: disastri
ambientali, salute, sicurezza alimentare, disponibilità d'acqua,
conflitti e inabilità di zone colpite dall'innalzamento delle
acque.
A che ora è la fine del mondo?Se lo chiedeva Ligabue nel 1994, l'anno della "discesa in campo" di Silvio Berlusconi, all'epoca semplicemente il presidente del Milan e il numero uno di Mediaset, quando ancora oltre all'appellativo de "il Cavaliere" non eravamo abituati a sentir nominare anche quello di "Presidente del Consiglio". Erano gli anni della fine della Prima Repubblica e dell'inizio della Seconda - che forse tanto diversa dalla prima non lo era e non lo è mai stata - ma soprattutto dell'influenza della televisione nei consumi e negli stili di vita attraverso la pubblicità. Una sorta di sogno americano sbarcato in ritardo nel nostro Paese, che ha visto nel buon Silvio l'incarnazione del (presunto) sogno italiano, sfociato poi nel celebre libello elettorale di inizio millennio "Una storia italiana". Rimembri politici nefasti a parte la domanda di metà anni Novanta di un Ligabue ad inizio carriera rimane ancora di attualità: a che ora è la fine del mondo? "Berlusconi diceva che la TV non contava, beh non era proprio così": con quella canzone Liga ha voluto denunciare il potere della televisione sulla gente attraverso l'ironia.
Denuncia che il cantante di Correggio ha poi inserito in altre celebri canzoni, seppur in maniera diversa ma sempre con il fine di una sorta di "protesta". Come in Baby è un mondo super (Album: Miss Mondo, 1999) o come in Sotto Bombardamento (Album: Campovolo 2.011, 2012), canzone nella quale si prende di mira il ruolo politico della stampa e dell'informazione:
"Tieni giù la testa che volano titoli... Dicevi che il mondo va cambiato e intanto è lui che cambia te... Tienimi giù la testa che volano news, volano missili...".
L'album più denso di proteste è però Mondovisione (2013), da molti definito un album pieno di canzone "politiche": "È un disco per dare voce allo sfinimento. Non è un disco politico perché anche le canzoni d'incazzatura sono canzoni sentimentali", aveva dichiarato Ligabue in una puntata di Che Tempo Che Fa. Ecco "di incazzatura" è l'espressione probabilmente migliore per esprimere ciò che Ligabue cerca di vomitare fuori ne Il muro del suono e Il sale della terra, canzoni nelle quali non si risparmiano colpi a media, politica e magistratura.
"... sotto i colpi di spugna di una democrazia... la pallottola è in canna in bella calligrafia, la giustizia che ti aspetti è uguale per tutti ma le sentenze sono un pelo in ritardo, avvocati che alzano i calici al cielo sentendosi Dio..."
"... siamo il culo sulla sedia... siamo quelli a cui non devi chiedere fattura ... siamo l'opinione sotto libro paga... "
Un cerchio che si chiude con una delle ultime canzoni, Non ho che te, nella quale l'attualità della disoccupazione e di un'economia malata non sono purtroppo un miraggio ma una triste realtà.
Insomma, quando la musica diventa una bella espressione di critica...
Gli attentati di Parigi di ieri sera che hanno sconvolto la Francia e l'Europa riportano alla ribalta mediatica l'ormai complesso dilemma: Islam uguale terrorismo, morte e violenza? La pancia, intesa come paura ed emotività, ci spinge a dire sì, la ragione invece ci porta sul binario opposto: no, non si può fare di tutta un'erba un fascio.
Una questione spinosa che si alimenta ormai da quel celebre e triste 11 settembre 2001, quando il terrorismo - anche mediatico - di Al Qaeda sconvolse l'Occidente con gli attentati aerei kamikaze che fecero crollare le Torri Gemelle e simbolicamente la supremazia statunitense nel mondo. Evento che sconvolse anche la grande giornalista Oriana Fallaci, che dopo quel tragico evento vomitò fuori tutta la sua rabbia, la sua indignazione e anche la sua paura di un mondo ormai senza senso e alla deriva. Un pensiero espresso nel libro La forza della ragione - secondo de La Trilogia di Oriana Fallaci (gli altri due sono La rabbia e l'orgoglio e Oriana Fallaci intervista sé stessa) - nel quale la giornalista rifiuta ogni possibilità di integrazione fra cristiani e musulmani, fra Occidente e Medio Oriente, fra Bibbia e Corano, in quanto espressioni di due culture troppo diverse e incompatibili fra loro.
Vignetta circolata nei giorni successivi all'attentato
a Charlie Hebdo dello scorso gennaio
Un pensiero duro, impregnato di delusione ed espresso coraggiosamente al quale ha successivamente risposto il giornalista e scrittore Tiziano Terzani, che quasi affettuosamente cerca di riportare l'amica Oriana alla ragione, alla contestualizzazione, alla comprensione della diversità. Una lettera aperta e diretta che alla rabbia provocata da uno violenza ingiusta contrappone la necessità di cercare la verità, al fine di evitare che alla rabbia si sostituisca l'odio.
E il rapporto complesso fra Islam e cristianità, fra Occidente e Medio Oriente è stato anche il tema affrontato dall'ormai Papa Emerito Benedetto XVI in quel tanto contestato discorso di Ratisbona del settembre 2006 il cui senso travisato fu usato strumentalmente ma che in realtà aveva come fine quello di rafforzare il dialogo interreligioso, centrale nella Chiesa e nella sua opera già dal Pontificato di Giovanni Paolo II.
Tre punti di vista a volte incompresi, a volte strumentalizzati, a volte anche contrastanti fra di loro ma sicuramente complementari per cercare di capire cos'è l'Islam ma anche e soprattutto cosa siamo noi occidentali. Tre punti di vista che ad ogni azione terroristica tornano d'attualità e che sarebbe bene leggere per non dimenticare e non dover continuare a rivivere queste tragedie per capire che il dialogo è l'unica alternativa alla violenza.
Immagine circolata nelle ultime ore sui social
in solidarietà alla città di Parigi dopo gli attentati di ieri sera
ORIANA FALLACI, LA FORZA DELLA RAGIONE (passi salienti in quest'articolo dell'Huffington Post)
Ancora una volta Parigi,
la Francia, l'Europa. A nemmeno un anno dall'attentato alla redazionedel giornale satirico Charlie Hebdo il terrorismo colpisce ancora la
Capitale francese e con essa l'Occidente, facendo sprofondare
l'Europa in una paura sempre più tangibile. Ieri sera, venerdì 13
novembre, otto attacchi simultanei hanno assordato Parigi e i suoi
cittadini: il tutto è cominciato alle 21.20 allo Stade de France
dove si stava svolgendo la partita di calcio amichevole fra Francia e
Germania, con tre esplosioni all'esterno nei pressi della struttura;
altri attacchi si sono verificati in un ristorante orientale a Rue de
Charonne, sulla terrazza della pizzeria “Casa Nostra” a “Rue
Fontaine” e poco più a nord fra Rue Bichat e Rue Alibert; presso
il Boulevard
Voltaire, dove il 9 gennaio avvenne la grande marcia in risposta agliattentati contro Charlie Hebdo di due giorni prima, un terrorista si
è fatto saltare in aria;infine l'attacco più sanguinoso
presso lo storico locale Bataclan – utilizzato per spettacoli e
concerti – all'interno del quale tre terroristi hanno sparato sulla
folla con dei kalashnikov prendendo poi un centinaio di ostaggi
giustiziandoli uno ad uno. La matrice degli attentati è sicuramente
islamista (i terroristi hanno urlato “Allah Akbar”) e il bilancio
per ora sembra essere di 127 morti ma molti sono i feriti. C'è la presunta e ancora da verificare rivendicazione da parte dell'Isis -
che ha festeggiato gli attentati attraverso i suoi canali
mediatici sul web – che ha ammonito la Francia e gli altri Paesi europei per aver "intrapreso questa crociata contro lo Stato Islamico offendendo il Profeta Maometto". Francia ha deciso di chiudere le frontiere
proclamando lo stato d'emergenza (qui tutte le notizie approfondite).
Se a gennaio era stata
colpita una redazione giornalistica e quindi la libertà
d'espressione, ieri gli obiettivi sono stati dei luoghi di svago -
come lo stadio, la sala da concerto, bar e ristoranti – prendendo
di mira semplici cittadini e mandando un messaggio molto chiaro:
possiamo colpirvi dove e quando vogliamo e siete tutti potenziali
vittime. L'attacco è alla quotidianità dell'Europa, alla sua
serenità, alla sua sicurezza. L'obiettivo è diffondere il caos, la
paura, il senso continuo di pericolo in qualsiasi contesto e
situazione. Il risultato? La diffidenza verso il diverso,
l'intolleranza, la discriminazione (vedi saggio Il male dell'intolleranza). Ed è qui che bisogna essere lucidi, non
lasciandosi andare a linciaggi mediatici e generalisti secondo cui
Islam equivale a terrorismo. È fondamentale ricordare che un uomo
che uccide un altro uomo in nome di un qualche Dio non è un fedele
ma un fondamentalista, un integralista la cui ragione e le cui azioni
sono mosse dall'ideologia e non dalla fede. La religione è presa
come pretesto, come maschera, come scudo.
Negli ultimi giorni si
sono susseguiti degli eventi che adesso sembra stiano rendendo più
chiaro un quadro inquietante: l'Isis non si limita nella sua opera di
terrore ma risponde alle controffensive dell'Occidente (vedi
bombardamenti in Siria) con altra violenza direttamente a domicilio.
L'aereo russo caduto sul Sinai dopo essere esploso in volo, la
presunta uccisione del boia Jihadi John da parte degli USA e i
bombardamenti francesi sullo Stato Islamico sono elementi di un
puzzle complesso e ancora incompleto nel quale il rischio è che ad
ogni azione corrisponda una reazione in una escalation di violenza
imprevedibile e non controllabile. Ed eloquenti sono le dichiarazioni
del Presidente francese Hollande: “Saremo spietati contro ogni
forma di violenza” e di Papa Francesco: "Non c'è nessuna giustificazione. Tutto ciò non è umano".
Una cosa è certa: urge
pregare, in ogni modo. Religiosamente o laicamente non importa. La
solidarietà è l'unico collante che può tenere unita l'umanità e
la civiltà, in un mondo che – a discapito di un progresso tanto
proclamato e decantato – vede l'uomo regredire al rango di bestia. Se questo è un uomo...
"In Gesù Cristo il nuovo umanesimo": questo il titolo del 5°
Convegno ecclesiale nazionale cominciato ieri a Firenze e che durerà
fino a venerdì 13 novembre. E nella giornata di oggi il tema
dell'umanesimo ha visto il prezioso contributo niente meno che di
Papa Francesco, arrivato nella città toscana per incontrare la
Chiesa italiana.
Un
incontro i cui contenuti possono essere riassunti nel discorso tenuto
dal Papa presso il Duomo di Firenze e che può essere definito un
capolavoro di comunicazione per la densità di immagini che Bergoglio
ha utilizzato per mandare messaggi chiari e precisi non solo alla
Chiesa ma al mondo cattolico intero. E come sua abitudine tre sono
state le immagini che Bergoglio ha voluto utilizzare per raccontare
la sua idea di "Chiesa in uscita e pastorale": l'immagine
di don Camillo e Peppone, la storia di un vescovo che è sorretto
dalla gente in tram e infine l'immagine della medaglia spezzata a
metà fra madre e figlio.
DON
CAMILLO E PEPPONE. La citazione dei celebri personaggi popolari
inventati da Guareschi ha subito provocato gli applausi della platea
alla quale stava parlando Francesco, richiamando una concezione
popolare del rapporto fra Chiesa e popolo: "Mi colpisce come
nelle storie di Guareschi la preghiera di un buon parroco si unisca
alla evidente vicinanza con la gente. [...] Vicinanza alla gente e
preghiera sono la chiave per vivere un umanesimo cristiano popolare,
umile, generoso, lieto". Ed è attraverso questa immagine
che Francesco ha ribadito un concetto già esposto quel 13 marzo 2013
nel giorno della sua elezione: "Popolo e pastori insieme! Ai
vescovi chiedo di essere pastori".
Immagine da ilsussidiario.net
IL
VESCOVO SORRETTO DALLA GENTE. Ed è da questa immagine di buon
pastore che Francesco racconta un aneddoto: "Di
recente ho letto di un vescovo che raccontava che era in metrò
all’ora di punta e c’era talmente tanta gente che non sapeva più
dove mettere la mano per reggersi. Spinto a destra e a sinistra, si
appoggiava alle persone per non cadere. E così ha pensato che, oltre
la preghiera, quello che fa stare in piedi un vescovo, è la sua
gente".
LA
MEDAGLIA SPEZZATA A META'. E poi un'altra immagine presa dalla storia
popolare: “Siamo
qui a Firenze, città della bellezza. Quanta bellezza in questa città
è stata messa a servizio della carità! Penso allo Spedale
degli Innocenti, ad esempio. Una delle prime architetture
rinascimentali è stata creata per il servizio di bambini abbandonati
e madri disperate. Spesso queste mamme lasciavano, insieme ai
neonati, delle medaglie spezzate a metà, con le quali speravano,
presentando l’altra metà, di poter riconoscere i propri figli in
tempi migliori. Ecco, dobbiamo immaginare che i nostri poveri abbiano
una medaglia spezzata. Noi abbiamo l’altra metà. La Chiesa madre
ha l’altra metà della medaglia di tutti e riconosce tutti i suoi
figli abbandonati, oppressi, affaticati. Il Signore ha versato il suo
sangue non per alcuni, né per pochi né per molti, ma per tutti”.
Tre immagini di umanesimo che nascono
però da tre sentimenti, sui quali il cristiano è chiamato a
riflettere con la sguardo fisso a Cristo, l'Ecce Homo. Umiltà,
disinteresse e beatitudine sono i perni sui quali Bergoglio basa la
sua idea di Chiesa ed è qui che si rivolge alla Chiesa italiana:
“Non dobbiamo essere ossessionati dal potere. […] Preferisco
una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le
strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità
di aggrapparsi alle proprie sicurezze”. Tre sentimenti che per
sbocciare devono vincere due tentazioni precise individuate da
Bergoglio, quella del pelagianesimo e quella dello gnosticismo: “La
dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare
domande, dubbi, interrogativi ma è viva, sa inquietare, animare. […]
Il fascino dello gnosticismo è quello di una fede rinchiusa nel
soggettivismo dove il soggetto rimane chiuso nell'immanenza della sua
ragione o dei suoi sentimenti”.
Ed è qui che Francesco ribadisce un
tema a lui caro: il dialogo e la cultura dell'incontro. “Vi
raccomando in maniera speciale la capacità di incontro. Dialogare
non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria fetta
della torta comune. Non è questo che intendo. Ma è cercare il bene
comune per tutti. […] La società italiana si costruisce quando le
sue diverse ricchezze culturali possono dialogare in modo
costruttivo: quella popolare, quella accademica, quella giovanile,
quella artistica, quella tecnologica, quella economia, quella
politica e quella dei media... La Chiesa sia fermento di dialogo, di
incontro, di unità”.
Infine un appello ai giovani: “Superate
l'apatia e siate costruttori dell'Italia! Dovunque voi siate non
costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo”.
"Tutto è connesso. Comunicazione e media digitali per un umanesimo integrato e integrante". Questo il titolo dell'incontro del 9 e 10 ottobre andato di scena alla Cattolica di Milano in occasione dell'incontro in presenza di Anicec, il corso online per gli Animatori della Comunicazione e della Cultura organizzato dall'Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali della CEI e proprio dall'Università Cattolica del Sacro Cuore. Una full immersion di due giorni nella quale molteplici sono stati gli spunti d'analisi e di riflessioni che i corsisti di Anicec hanno potuto affrontare, dal ruolo che i media digitali si stanno conquistando all'interno del panorama mediatico e sociale fino al ruolo che l'uomo e la società stessa devono assumere nei confronti dei cosiddetti new media.
La prima giornata ha visto don Ivan Maffeis, direttore dell'Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali della Conferenza Episcopale Italiana, S.E. mons. Claudio Giuliodori, Assistente ecclesiastico generale dell'Università Cattolica, il prof. Francesco Botturri, Prorettore dell'Università Cattolica e la prof.ssa Chiara Giaccardi, direttore scientifico del corso ANICEC e responsabile del sito www.firenze2015.it animare la tavola rotonda all'interno della quale si è parlato delle prospettive presenti e future che la comunicazione è chiamata ad affrontare con l'avvento di Internet e del web 2.0, prima di una rapida visita al Padiglione Zero e a quelli della Caritas e della Santa Sede all'interno di Expo.
Don Ivan Maffeis ha sottolineato l'importanza di saper interpretare l'abbondanza di dati che in certi contesti può comportare l'espandersi di una cultura frammentata che non garantisce approfondimento e unità. Concetto elaborato partendo da una considerazione del prof. Botturi che ha ricordato l'importanza di promuovere una cultura dell'abitare il nostro tempo argomentandola attraverso tre provocazioni: 1) La comunicazione sociale è operatrice di connessione? 2) È possibile comunicare la verità? 3) È possibile un pudore ecclesiale? Oggi ciò che è oggetto della comunicazione è disponibile a tutti creando una sorta di universalizzazione nella quale ciò che non è invece disponibile finisce per non esistere, creando isolamento, esclusione ed autoreferenzialità. Inoltre una massa di informazioni non crea necessariamente conoscenza, aspetto che più volte risalta nella nostra società, dove la notizia selezionata e confezionata diventa un prodotto da vendere al pubblico anche a discapito della realtà delle cose. Infine altro aspetto non certo meno importante è il pericolo di violare la riservatezza della vita privata in nome di una eccessiva resa pubblica attraverso una condivisione sregolata di contenuti e informazioni.
Mons. Giuliodori ha posto altre quattro domande come spunto di riflessione: 1) Come vive la Chiesa italiana il tema della connessione? 2) Quali vantaggi e svantaggi nella iperconnessione? 3) Quale senso per la connessione? Quale direzione per la comunicazione? Il punto di partenza è sicuramente la necessità di sfruttare le tecnologie del tempo per evangelizzare nel mondo attraverso una connessione interna alla comunità ecclesiale e una connessione esterna con il resto della comunità in cui viviamo. Il tutto attraverso la ricerca di quella cultura dell'incontro promossa da Papa Francesco nella quale è importante saper dialogare e nella quale i media contribuiscono fortemente a creare e formare l'opinino pubblica. È quindi importante saper sfruttare al meglio le potenzialità delle nuove tecnologie senza dimenticare che la connettività non deve tramutarsi in una iperconnessione dannosa all'essere umano. Bisogna cioè trovare un equilibrio nella connessione secondo il quale è importante saper anche essere disconnessi quando necessario! La connessione non deve quindi generare consenso attraverso la pubblicità in un processo secondo il quale gli input comunicativi diventano business e interesse economico: solo saper mantenere un senso vero delle cose permetterà di comunicare efficacemente, dando alla comunicazione stessa una direzione giusta.
E in questo senso la prof.ssa Giaccardi ha ribadito come la connessione non sia una prodotto della tecnologia in quanto prima del livello tecnologico domina il livello ontologico e antropologico della comunicazione. C'è cioè un primato della dimensione antropologica che permette di alimentare la cultura dell'incontro accrescendo la connessione fra gli uomini, tenendo a mente che prima di ogni mezzo di comunicazione viene l'uomo stesso. Il rischio è quello di una ideologia dilagante che deve essere combattuta da una fondamentale consapevolezza del limite, da una dimensione dell'umanesimo e da una integrazione di linguaggi che siano testimonianza e partecipazione attiva raccontando storie ed esperienze nel quale si predilige il dare rispetto al consumare.
Infine la seconda giornata ha visto la lezione del prof. Daniele Chieffi, Head of Web Media Relations, Social Media management and Reputation Monitoring di ENI, nella quale si è entrati nel mondo delle relazioni professionali all'interno del digitale cercando di capire come i social media hanno cambiato il modo di comunicare e come tali cambiamenti hanno cambiato le strutture organizzative di aziende e istituzioni. Il tutto anche attraverso un'esercitazione pratica all'interno dell'"Officina digitale" come campo di allenamento nell'ideazione di un piano strategico di digital communication.
Tanti gli argomenti su cui riflettere e ancora di più gli aspetti da scoprire e approfondire per una comunicazione sempre più incentrata sulla connessione ma senza dimenticare l'uomo come perno di una sana comunicazione.
Ancora
una volta, seguendo una tradizione della quale mi sento onorato, il
Segretario Generale delle Nazioni Unite ha invitato il Papa a
rivolgersi a questa onorevole assemblea delle nazioni. A mio nome e a
nome di tutta la comunità cattolica, Signor Ban Ki-moon, desidero
esprimerLe la più sincera e cordiale riconoscenza; La ringrazio
anche per le Sue gentili parole. Saluto inoltre i Capi di Stato e di
Governo qui presenti, gli Ambasciatori, i diplomatici e i funzionari
politici e tecnici che li accompagnano, il personale delle Nazioni
Unite impegnato in questa 70.ma Sessione dell’Assemblea Generale,
il personale di tutti i programmi e agenzie della famiglia dell’ONU
e tutti coloro che in un modo o nell’altro partecipano a questa
riunione. Tramite voi saluto anche i cittadini di tutte le nazioni
rappresentate a questo incontro. Grazie per gli sforzi di tutti e di
ciascuno per il bene dell’umanità.
Questa
è la quinta volta che un Papa visita le Nazioni Unite. Lo
hanno fatto i miei predecessori Paolo VI nel 1965, Giovanni Paolo II
nel 1979 e nel 1995 e il mio immediato predecessore, oggi Papa
emerito Benedetto XVI, nel 2008. Tutti costoro non hanno risparmiato
espressioni di riconoscimento per l’Organizzazione, considerandola
la risposta giuridica e politica adeguata al momento storico,
caratterizzato dal superamento delle distanze e delle frontiere ad
opera della tecnologia e, apparentemente, di qualsiasi limite
naturale all’affermazione del potere. Una risposta imprescindibile
dal momento che il potere tecnologico, nelle mani di ideologie
nazionalistiche o falsamente universalistiche, è capace di produrre
tremende atrocità. Non posso che associarmi all’apprezzamento dei
miei predecessori, riaffermando l’importanza che la Chiesa
Cattolica riconosce a questa istituzione e le speranze che ripone
nelle sue attività.
La
storia della comunità organizzata degli Stati,
rappresentata dalle Nazioni Unite, che festeggia in questi giorni il
suo 70° anniversario, è una storia di importanti successi comuni,
in un periodo di inusitata accelerazione degli avvenimenti. Senza
pretendere di essere esaustivo, si può menzionare la codificazione e
lo sviluppo del diritto internazionale, la costruzione della
normativa internazionale dei diritti umani, il perfezionamento del
diritto umanitario, la soluzione di molti conflitti e operazioni di
pace e di riconciliazione, e tante altre acquisizioni in tutti i
settori della proiezione internazionale delle attività umane. Tutte
queste realizzazioni sono luci che contrastano l’oscurità del
disordine causato dalle ambizioni incontrollate e dagli egoismi
collettivi. È sicuro che, benché siano molti i gravi problemi non
risolti, è però evidente che se fosse mancata tutta quell’attività
internazionale, l’umanità avrebbe potuto non sopravvivere all’uso
incontrollato delle sue stesse potenzialità. Ciascuno di questi
progressi politici, giuridici e tecnici rappresenta un percorso di
concretizzazione dell’ideale della fraternità umana e un mezzo per
la sua maggiore realizzazione. Rendo perciò omaggio a tutti gli
uomini e le donne che hanno servito con lealtà e sacrificio l’intera
umanità in questi 70 anni. In particolare, desidero ricordare oggi
coloro che hanno dato la lorovita per la pace e la riconciliazione
dei popoli, a partire da Dag Hammarskjöld fino ai moltissimi
funzionari di ogni grado, caduti nelle missioni umanitarie di pace e
di riconciliazione.
L’esperienza
di questi 70 anni, al
di là di tutto quanto è stato conseguito, dimostra che la riforma e
l’adattamento ai tempi sono sempre necessari, progredendo verso
l’obiettivo finale di concedere a tutti i Paesi, senza eccezione,
una partecipazione e un’incidenza reale ed equa nelle decisioni.
Tale necessità di una maggiore equità, vale in special modo per gli
organi con effettiva capacità esecutiva, quali il Consiglio di
Sicurezza, gli Organismi finanziari e i gruppi o meccanismi
specificamente creati per affrontare le crisi economiche. Questo
aiuterà a limitare qualsiasi sorta di abuso o usura specialmente nei
confronti dei Paesi in via di sviluppo. Gli organismi finanziari
internazionali devono vigilare in ordine allo sviluppo sostenibile
dei Paesi e per evitare l’asfissiante sottomissione di tali Paesi a
sistemi creditizi che, ben lungi dal promuovere il progresso,
sottomettono le popolazioni a meccanismi di maggiore povertà,
esclusione e dipendenza.
Il
compito delle Nazioni Unite, a
partire dai postulati del Preambolo e dei primi articoli della sua
Carta costituzionale, può essere visto come lo sviluppo e la
promozione della sovranità del diritto, sapendo che la giustizia è
requisito indispensabile per realizzare l’ideale della fraternità
universale. In questo contesto, è opportuno ricordare che la
limitazione del potere è un’idea implicita nel concetto di
diritto. Dare a ciascuno il suo, secondo la definizione classica di
giustizia, significa che nessun individuo o gruppo umano si può
considerare onnipotente, autorizzato a calpestare la dignità e i
diritti delle altre persone singole o dei gruppi sociali. La
distribuzione di fatto del potere (politico, economico, militare,
tecnologico, ecc.) tra una pluralità di soggetti e la creazione di
un sistema giuridico di regolamentazione delle rivendicazioni e degli
interessi, realizza la limitazione del potere. Oggi il panorama
mondiale ci presenta, tuttavia, molti falsi diritti, e – nello
stesso tempo – ampi settori senza protezione, vittime piuttosto di
un cattivo esercizio del potere: l’ambiente naturale e il vasto
mondo di donne e uomini esclusi. Due settori intimamente uniti tra
loro, che le relazioni politiche ed economiche preponderanti hanno
trasformato in parti fragili della realtà. Per questo è necessario
affermare con forza i loro diritti, consolidando la protezione
dell’ambiente e ponendo termine all’esclusione.
Anzitutto
occorre affermare che
esiste un vero “diritto dell’ambiente” per una duplice ragione.
In primo luogo perché come esseri umani facciamo parte
dell’ambiente. Viviamo in comunione con esso, perché l’ambiente
stesso comporta limiti etici che l’azione umana deve riconoscere e
rispettare. L’uomo, anche quando è dotato di «capacità senza
precedenti» che «mostrano una singolarità che trascende l’ambito
fisico e biologico» (Enc. Laudato sì, 81), è al tempo stesso una
porzione di tale ambiente. Possiede un corpo formato da elementi
fisici, chimici e biologici, e può sopravvivere e svilupparsi
solamente se l’ambiente ecologico gli è favorevole. Qualsiasi
danno all’ambiente, pertanto, è un danno all’umanità. In
secondo luogo, perché ciascuna creatura, specialmente gli esseri
viventi, ha un valore in sé stessa, di esistenza, di vita, di
bellezza e di interdipendenza con le altre creature. Noi cristiani,
insieme alle altre religioni monoteiste, crediamo che l’universo
proviene da una decisione d’amore del Creatore, che permette
all’uomo di servirsi rispettosamente della creazione per il bene
dei suoi simili e per la gloria del Creatore, senza però abusarne e
tanto meno essendo autorizzato a distruggerla. Per tutte le credenze
religiose l’ambiente è un bene fondamentale (cfr ibid., 81).
L’abuso
e la distruzione dell’ambiente,
allo stesso tempo, sono associati ad un inarrestabile processo di
esclusione. In effetti, una brama egoistica e illimitata di potere e
di benessere materiale, conduce tanto ad abusare dei mezzi materiali
disponibili quanto ad escludere i deboli e i meno abili, sia per il
fatto di avere abilità diverse (portatori di handicap), sia perché
sono privi delle conoscenze e degli strumenti tecnici adeguati o
possiedono un’insufficiente capacità di decisione politica.
L’esclusione economica e sociale è una negazione totale della
fraternità umana e un gravissimo attentato ai diritti umani e
all’ambiente. I più poveri sono quelli che soffrono maggiormente
questi attentati per un triplice, grave motivo: sono scartati dalla
società, sono nel medesimo tempo obbligati a vivere di scarti e
devono soffrire ingiustamente le conseguenze dell’abuso
dell’ambiente. Questi fenomeni costituiscono oggi la tanto diffusa
e incoscientemente consolidata “cultura dello scarto”.
La
drammaticità di tutta questa situazione di esclusione e di inequità,
con le sue chiare conseguenze, mi porta, insieme a tutto il popolo
cristiano e a tanti altri, a prendere coscienza anche della mia grave
responsabilità al riguardo, per cui alzo la mia voce, insieme a
quella di tutti coloro che aspirano a soluzioni urgenti ed efficaci.
L’adozione dell’ “Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile”
durante ilVertice mondiale che inizierà oggi stesso, è un
importante segno di speranza. Confido anche che la Conferenza di
Parigi sul cambiamento climatico raggiunga accordi fondamentali ed
effettivi.
Non
sono sufficienti, tuttavia, gli impegni assunti solennemente,
anche quando costituiscono un passo necessario verso la soluzione dei
problemi. La definizione classica di giustizia alla quale ho fatto
riferimento anteriormente contiene come elemento essenziale una
volontà costante e perpetua: Iustitia est constans et perpetua
voluntas ius suum cuique tribuendi. Il mondo chiede con forza a tutti
i governanti una volontà effettiva, pratica, costante, fatta di
passi concreti e di misure immediate, per preservare e migliorare
l’ambiente naturale e vincere quanto prima il fenomeno
dell’esclusione sociale ed economica, con le sue tristi conseguenze
di tratta degli esseri umani, commercio di organi e tessuti umani,
sfruttamento sessuale di bambini e bambine, lavoro schiavizzato,
compresa la prostituzione, traffico di droghe e di armi, terrorismo e
crimine internazionale organizzato. È tale l’ordine di grandezza
di queste situazioni e il numero di vite innocenti coinvolte, che
dobbiamo evitare qualsiasi tentazione di cadere in un nominalismo
declamatorio con effetto tranquillizzante sulle coscienze. Dobbiamo
aver cura che le nostre istituzioni siano realmente efficaci nella
lotta contro tutti questi flagelli.
La
molteplicità e complessità dei problemi richiede
di avvalersi di strumenti tecnici di misurazione. Questo, però,
comporta un duplice pericolo: limitarsi all’esercizio burocratico
di redigere lunghe enumerazioni di buoni propositi – mete,
obiettivi e indicatori statistici –, o credere che un’unica
soluzione teorica e aprioristica darà risposta a tutte le sfide. Non
bisogna perdere di vista, in nessun momento, che l’azione politica
ed economica, è efficace solo quando è concepita come un’attività
prudenziale, guidata da un concetto perenne di giustizia e che tiene
sempre presente che, prima e aldilà di piani e programmi, ci sono
donne e uomini concreti, uguali ai governanti, che vivono, lottano e
soffrono, e che molte volte si vedono obbligati a vivere miseramente,
privati di qualsiasi diritto.
Affinché
questi uomini e donne concreti possano
sottrarsi alla povertà estrema, bisogna consentire loro di essere
degni attori del loro stesso destino. Lo sviluppo umano integrale e
il pieno esercizio della dignità umana non possono essere imposti.
Devono essere costruiti e realizzati da ciascuno, da ciascuna
famiglia, in comunione con gli altri esseri umani e in una giusta
relazione con tutti gli ambienti nei quali si sviluppa la socialità
umana – amici, comunità, villaggi e comuni, scuole, imprese e
sindacati, province, nazioni, ecc. Questo suppone ed esige il diritto
all’istruzione – anche per le bambine (escluse in alcuni luoghi)
– che si assicura in primo luogo rispettando e rafforzando il
diritto primario della famiglia a educare e il diritto delle Chiese e
delle altre aggregazioni sociali a sostenere e collaborare con le
famiglie nell’educazione delle loro figlie e dei loro figli.
L’educazione, così concepita, è la base per la realizzazione
dell’Agenda 2030 e per il risanamento dell’ambiente.
Al
tempo stesso, i governanti devono fare tutto il possibile affinché
tutti possano disporre della base minima materiale e spirituale per
rendere effettiva la loro dignità e per formare e mantenere una
famiglia, che è la cellula primaria di qualsiasi sviluppo sociale.
Questo minimo assoluto, a livello materiale ha tre nomi: casa, lavoro
e terra; e un nome a livello spirituale: libertà dello spirito, che
comprende la libertà religiosa, il diritto all’educazione e gli
altri diritti civili.
Per
tutte queste ragioni, la
misura e l’indicatore più semplice e adeguato dell’adempimento
della nuova Agenda per lo sviluppo sarà l’accesso effettivo,
pratico e immeditato, per tutti, ai beni materiali e spirituali
indispensabili: abitazione propria, lavoro dignitoso e debitamente
remunerato, alimentazione adeguata e acqua potabile; libertà
religiosa e, più in generale, libertà dello spirito ed educazione.
Nello stesso tempo, questi pilastri dello sviluppo umano integrale
hanno un fondamento comune, che è il diritto alla vita, e, in senso
ancora più ampio, quello che potremmo chiamare il diritto
all’esistenza della stessa natura umana.
La
crisi ecologica, insieme
alla distruzione di buona parte della biodiversità, può mettere in
pericolo l’esistenza stessa della specie umana. Le nefaste
conseguenze di un irresponsabile malgoverno dell’economia mondiale,
guidato unicamente dall’ambizione di guadagno e di potere, devono
costituire un appello a una severa riflessione sull’uomo: «L’uomo
non si crea da solo. È spirito e volontà, però anche natura»
(BENEDETTO XVI, Discorso al Parlamento della Repubblica Federale di
Germania, 22 settembre 2011; citato in Enc. Laudato sì, 6). La
creazione si vede pregiudicata «dove noi stessi siamo l’ultima
istanza [...]. E lo spreco della creazione inizia dove non
riconosciamo più alcuna istanza sopra di noi, ma vediamo soltanto
noi stessi» (ID., Incontro con il Clero della Diocesi di
Bolzano-Bressanone, 6agosto 2008, citato ibid.). Perciò, la difesa
dell’ambiente e la lotta contro l’esclusione esigono il
riconoscimento di una legge morale inscritta nella stessa natura
umana, che comprende la distinzione naturale tra uomo e donna (cfr
Enc. Laudato sì, 155) e il rispetto assoluto della vita in tutte le
sue fasi e dimensioni (cfr ibid., 123; 136).
Senza
il riconoscimento di alcuni limiti etici naturali insormontabili
e senza l’immediata attuazione di quei pilastri dello sviluppo
umano integrale, l’ideale di «salvare le future generazioni dal
flagello della guerra» (Carta delle Nazioni Unite, Preambolo) e di
«promuovere il progresso sociale e un più elevato livello di vita
all’interno di una più ampia libertà» (ibid.) corre il rischio
di diventare un miraggio irraggiungibile o, peggio ancora, parole
vuote che servono come scusa per qualsiasi abuso e corruzione, o per
promuovere una colonizzazione ideologica mediante l’imposizione di
modelli e stili di vita anomali estranei all’identità dei popoli
e, in ultima analisi, irresponsabili. La guerra è la negazione di
tutti i diritti e una drammatica aggressione all’ambiente. Se si
vuole un autentico sviluppo umano integrale per tutti, occorre
proseguire senza stancarsi nell’impegno di evitare la guerra tra le
nazioni e tra i popoli.
A
tal fine bisogna assicurare il dominio incontrastato del diritto e
l’infaticabile ricorso al negoziato, ai buoni uffici e
all’arbitrato, come proposto dalla Carta delle Nazioni Unite, vera
norma giuridica fondamentale. L’esperienza dei 70 anni di esistenza
delle Nazioni Unite, in generale, e in particolare l’esperienza dei
primi 15 anni del terzo millennio, mostrano tanto l’efficacia della
piena applicazione delle norme internazionali come l’inefficacia
del loro mancato adempimento. Se si rispetta e si applica la Carta
delle Nazioni Unite con trasparenza e sincerità, senza secondi fini,
come un punto di riferimento obbligatorio di giustizia e non come uno
strumento per mascherare intenzioni ambigue, si ottengono risultati
di pace. Quando, al contrario, si confonde la norma con un semplice
strumento da utilizzare quando risulta favorevole e da eludere quando
non lo è, si apre un vero vaso di Pandora di forze incontrollabili,
che danneggiano gravemente le popolazioni inermi, l’ambiente
culturale, e anche l’ambiente biologico.
Il
Preambolo e il primo articolo della Carta delle Nazioni
Unite indicano
le fondamenta della costruzione giuridica internazionale: la pace, la
soluzione pacifica delle controversie e lo sviluppo delle relazioni
amichevoli tra le nazioni. Contrasta fortemente con queste
affermazioni, e le nega nella pratica, la tendenza sempre presente
alla proliferazione delle armi, specialmente quelle di distruzione di
massa come possono essere quelle nucleari. Un’etica e un diritto
basati sulla minaccia della distruzione reciproca – e
potenzialmente di tutta l’umanità – sono contraddittori e
costituiscono una frode verso tutta la costruzione delle Nazioni
Unite, che diventerebbero “Nazioni unite dalla paura e dalla
sfiducia”. Occorre impegnarsi per un mondo senza armi nucleari,
applicando pienamente il Trattato di non proliferazione, nella
lettera e nello spirito, verso una totale proibizione di questi
strumenti. Il recente accordo sulla questione nucleare in una regione
sensibile dell’Asia e del Medio Oriente, è una prova delle
possibilità della buona volontà politica e del diritto, coltivati
con sincerità, pazienza e costanza. Formulo i miei voti perché
questo accordo sia duraturo ed efficace e dia i frutti sperati con la
collaborazione di tutte le parti coinvolte.
In
tal senso, non mancano gravi prove delle
conseguenze negative di interventi politici e militari non coordinati
tra i membri della comunità internazionale. Per questo, seppure
desiderando di non avere la necessità di farlo, non posso non
reiterare i miei ripetuti appelli in relazione alla dolorosa
situazione di tutto il Medio Oriente, del Nord Africa e di altri
Paesi africani, dove i cristiani, insieme ad altri gruppi culturali o
etnici e anche con quella parte dei membri della religione
maggioritaria che non vuole lasciarsi coinvolgere dall’odio e dalla
pazzia, sono stati obbligati ad essere testimoni della distruzione
dei loro luoghi di culto, del loro patrimonio culturale e religioso,
delle loro case ed averi e sono stati posti nell’alternativa di
fuggire o di pagare l’adesione al bene e alla pace con la loro
stessa vita o con la schiavitù.
Queste
realtà devono costituire un serio appello ad
un esame di coscienza di coloro che hanno la responsabilità della
conduzione degli affari internazionali. Non solo nei casi di
persecuzione religiosa o culturale, ma in ogni situazione di
conflitto, come in Ucraina, in Siria, in Iraq, in Libia, nel
Sud-Sudan e nella regione dei Grandi Laghi, prima degli interessi di
parte, pur se legittimi, ci sono volti concreti. Nelle guerre e nei
conflitti ci sono persone, nostri fratelli e sorelle, uomini e donne,
giovani e anziani, bambini ebambine che piangono, soffrono e muoiono.
Esseri umani che diventano materiale di scarto mentre non si fa altro
che enumerare problemi, strategie e discussioni. Come ho chiesto al
Segretario Generale delle Nazioni Unite nella mia lettera del 9
agosto 2014, «la più elementare comprensione della dignità umana
[obbliga] la comunità internazionale, in particolare attraverso le
norme e i meccanismi del diritto internazionale, a fare tutto il
possibile per fermare e prevenire ulteriori sistematiche violenze
contro le minoranze etniche e religiose» e per proteggere le
popolazioni innocenti.
In
questa medesima linea vorrei citare un altro tipo di conflittualità,
non sempre così esplicitata ma che silenziosamente comporta la morte
di milioni di persone. Molte delle nostre società vivono un altro
tipo di guerra con il fenomeno del narcotraffico. Una guerra
“sopportata” e debolmente combattuta. Il narcotraffico per sua
stessa natura si accompagna alla tratta delle persone, al riciclaggio
di denaro, al traffico di armi, allo sfruttamento infantile e al
altre forme di corruzione. Corruzione che è penetrata nei diversi
livelli della vita sociale, politica, militare, artistica e
religiosa, generando, in molti casi, una struttura parallela che
mette in pericolo la credibilità delle nostre istituzioni.
Ho
iniziato questo intervento ricordando le visite dei
miei predecessori. Ora vorrei, in modo particolare, che le mie parole
fossero come una continuazione delle parole finali del discorso di
Paolo VI, pronunciate quasi esattamente 50 anni or sono, ma di
perenne valore. «È l’ora in cui si impone una sosta, un momento
di raccoglimento, di ripensamento, quasi di preghiera: ripensare,
cioè, alla nostra comune origine, alla nostra storia, al nostro
destino comune. Mai come oggi [...] si è reso necessario l’appello
alla coscienza morale dell’uomo [poiché] il pericolo non viene né
dal progresso né dalla scienza: questi, se bene usati, potranno anzi
risolvere molti dei gravi problemi che assillano l’umanità»
(Discorso ai Rappresentanti degli Stati, 4 ottobre 1965). Tra le
altre cose, senza dubbio, la genialità umana, ben applicata, aiuterà
a risolvere le gravi sfide del degrado ecologico e dell’esclusione.
Proseguo con le parole di Paolo VI: «Il pericolo vero sta nell’uomo,
padrone di sempre più potenti strumenti, atti alla rovina ed alle
più alte conquiste!» (ibid.).
La
casa comune di tutti gli uomini deve
continuare a sorgere su una retta comprensione della fraternità
universale e sul rispetto della sacralità di ciascuna vita umana, di
ciascun uomo e di ciascuna donna; dei poveri, degli anziani, dei
bambini, degli ammalati, dei non nati, dei disoccupati, degli
abbandonati, di quelli che vengono giudicati scartabili perché li si
considera nient’altro che numeri di questa o quella statistica. La
casa comune di tutti gli uomini deve edificarsi anche sulla
comprensione di una certa sacralità della natura creata.
Tale
comprensione e rispetto esigono un grado superiore di saggezza,
che accetti la trascendenza, rinunci alla costruzione di una élite
onnipotente e comprenda che il senso pieno della vita individuale e
collettiva si trova nel servizio disinteressato verso gli altri e
nell’uso prudente e rispettoso della creazione, per il bene comune
. Ripetendo le parole di Paolo VI, «l’edificio della moderna
civiltà deve reggersi su principii spirituali, capaci non solo di
sostenerlo, ma altresì di illuminarlo e di animarlo» (ibid.). Il
Gaucho Martin Fierro, un classico della letteratura della mia terra
natale, canta: “I fratelli siano uniti perché questa è la prima
legge. Abbiano una vera unione in qualsiasi tempo, perché se
litigano tra di loro li divoreranno quelli di fuori”.
Il
mondo contemporaneo apparentemente connesso,
sperimenta una crescente e consistente e continua frammentazione
sociale che pone in pericolo «ogni fondamento della vita sociale» e
pertanto «finisce col metterci l’uno contro l’altro per
difendere i propri interessi» (Enc. Laudato sì, 229).
Il
tempo presente ci invita a privilegiare azioni che
possano generare nuovi dinamismi nella società e che portino frutto
in importanti e positivi avvenimenti storici (cfr Esort. ap.
Evangelii gaudium, 223). Non possiamo permetterci di rimandare
“alcune agende” al futuro. Il futuro ci chiede decisioni critiche
e globali di fronte ai conflitti mondiali che aumentano il numero
degli esclusi e dei bisognosi.
La
lodevole costruzione giuridica internazionale dell’Organizzazione
delle Nazioni Unite e di tutte le sue realizzazioni, migliorabile
come qualunque altra opera umana e, al tempo stesso, necessaria, può
essere pegno di un futuro sicuro e felice per le generazioni future.
Lo sarà se i rappresentanti degli Stati sapranno mettere da parte
interessi settoriali e ideologie e cercare sinceramente il servizio
del bene comune. Chiedo a Dio Onnipotente che sia così, e vi
assicuro il mio appoggio, la mia preghiera e l’appoggio e le
preghiere di tutti i fedeli della Chiesa Cattolica, affinché questa
Istituzione, tutti i suoi Stati membri e ciascuno dei suoi
funzionari, renda sempre un servizio efficace all’umanità, un
servizio rispettoso della diversità e che sappia potenziare, per il
bene comune, il meglio di ciascun popolo e di ciascun cittadino.
La
benedizione dell’Altissimo, la
pace e la prosperità a tutti voi e a tutti i vostri popoli. Grazie"