“Voi che vivete sicuri, nelle vostre tiepide case, voi
che trovate tornando a casa il cibo caldo e visi amici: considerate se questo è
un uomo, che lavora nel fango, che non conosce pace, che lotta per mezzo pane,
che muore per un sì o per un no. Considerate se questa è una donna, senza
capelli e senza nome, senza più forza di ricordare, vuoti gli occhi e freddo il
grembo, come una rana d’inverno. Meditate che questo è stato: vi comando queste
parole. Scolpitele nel vostro cuore, stando in casa andando per via,
coricandovi alzandovi; ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia la casa, la
malattia vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi”.
Con queste parole aspre si apre Se questo è un Uomo, il libro scritto da Primo Levi e pubblicato
nel 1956 da Einaudi, nel quale il chimico piemontese di origini ebraiche
racconta gli anni trascorsi nel Lager di Auschwitz, in Polonia, dopo esservi
stato deportato nel 1944. Un libro scritto per soddisfare il bisogno di
raccontare agli altri per farli partecipi dell’orrore della miseria vissuta da
molti uomini nei campi di sterminio nazisti. Un libro scritto a scopo di
liberazione interiore, come ammette lo stesso Levi nella prefazione, mettendo
in risalto gli aspetti più crudi della deportazione di milioni di ebrei, dalle
sofferenze fisiche della fame e del freddo fino alle umiliazioni subite ogni
giorno. Levi non scrive la storia del Lager per lamentarsi né tantomeno per
attaccare: con estrema lucidità semplicemente racconta, dà sfogo alla sua memoria
e al suo vissuto, con l’intento di trasmettere al lettore un messaggio che
riguarda essenzialmente l’uomo e la sua esistenza. Levi vuole sottolinearne la
fragilità d’animo ancor più che quella fisica, ribadendo come l’agire umano sia
spinto spesso dall’irrazionale - a volte forse dalla pazzia - mettendo l’uomo
contro l’uomo e in fin dei conti contro sé stesso.
Ed è forse qui che l’ideologia nazista manifesta la sua più
estrema crudeltà, riducendo l’ebreo, il criminale e il politico dissidente a
semplice oggetto - se non addirittura all’ultima delle bestie - privandolo
completamente della sua umanità. Levi ricorda bene l’umiliazione di essere
trattato senza alcuna pietà, il linguaggio gelido delle SS, i loro volti rigidi
come fossero di pietra, il loro chiamarli Stück
– pezzo – come fossero oggetti o dar loro da mangiare utilizzando la parola fressen[1]
– mangiare – rivolgendosi a loro come animali. Ricorda eventi, persone, stati
d’animo, e li racconta, mantenendo vivi i suoi ricordi e scrivendoli nero su
bianco, affinché l’uomo non dimentichi.
Ricordare per non dimenticare
E in fin dei conti è quello che facciamo ogni anno il 27 gennaio
per la Giornata della Memoria: ricordiamo per non dimenticare questo orrore.
Ricordiamo che milioni di uomini sono morti a causa della crudeltà di altri
uomini, che la libertà è stata resa schiava dell’ideologia e che la violenza ha
causato ingenti sofferenze e ingiustizie. Ricordiamo proiettando le immagini in
bianco e nero lasciateci dalla storia, rabbrividendo di fronte al filo spinato
sulle mura dei campi di concentramento, alla scritta Arbeit macht frei posta all’ingresso del campo di Auschwitz, alle
foto di quegli uomini ridotti a scheletri ambulanti, dei forni crematori e
delle camere a gas. Ricordiamo leggendo e rileggendo il libro di Levi,
chiedendoci davvero se questo è un uomo, ridotto a dover sopravvivere e non a
vivere, a dover perdere l’affetto dei cari guadagnando solo botte e disprezzo,
a dover mangiare pane raffermo e a lavarsi in acqua torbida. Cerchiamo di
ricordare interrogandoci se un uomo che viene privato della sua libertà e della
sua dignità sia ancora un uomo. Leggiamo Levi mentre descrive gli attimi in cui
l’uomo prende la consapevolezza di dover morire, mentre rinuncia a pensare e a
sperare perché “guai a sognare: il momento di coscienza che accompagna il
risveglio è la sofferenza più acuta”[2].
Leggiamo mentre ci viene descritta dettagliatamente la demolizione dell’uomo e della
sua identità, la distruzione del suo nome attraverso l’etichettamento di un
numero tatuato su un braccio e cucito su una giacca. “Condizione umana più
misera non c’è, e non è pensabile”[3],
scrive Levi.
Lo pensiamo anche noi, mentre ricordiamo questo dramma
storico e umano, magari commuovendoci davanti ad un film sulla Shoah, salvo poi dimenticarci che tutto
questo accade ancora, ogni giorno, sempre più spesso sotto casa nostra.
Lo straniero come nemico
“A molti, individui o popoli, può accadere di
ritenere, più o meno consapevolmente, che ogni straniero è nemico. Per lo più
questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si
manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un
sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso
diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena,
sta il Lager”[4].
È questo quello che Levi definisce il principio del Lager, secondo
il quale ogni straniero è da considerarsi un nemico, un pericolo, un ostacolo
da eliminare. È un principio che Levi paragona ad una infezione che attacca
l’animo umano rendendolo insensibile a qualunque forma di pietà e di umanità.
L’incapacità di solidarietà che ne deriva è espressione di un fastidio che si
prova nel guardare qualcuno diverso da noi, manifestando così un’incapacità di
comprensione e di accettazione della diversità. Siamo cioè intolleranti. Ma
cos’è di preciso l’intolleranza? Qual è il sottile confine fra il difendere le
proprie idee e l’accettare quelle degli altri? Il vocabolario Treccani con
intolleranza definisce un
“attaccamento rigido alle proprie idee e convinzioni,
per cui non si ammettono in altri opinioni diverse e si cerca di impedirne la
libera espressione, partendo dal presupposto dell’unicità della verità, e dalla
convinzione di essere in possesso della verità stessa”[5].
Sostanzialmente il confine fra tolleranza e intolleranza sta
nell’accettare di poter imparare anche da chi la pensa diversamente da noi,
attraverso un confronto e un dialogo che siano da arricchimento reciproco e non
uno scontro ideologico.
Purtroppo viviamo in un mondo nel quale tale accettazione non
è messa in pratica, probabilmente perché per farlo serve anche grande umiltà. Riconoscere
di poter sbagliare e di dover fare marcia indietro - magari chiedendo pure
scusa – non va molto di moda nella nostra società. Per questo e per altri
motivi prende sempre più piede una crescente intolleranza nei confronti di chi
è diverso da noi e ci è quindi di ostacolo. Una intolleranza che è di diverse
tipologie: politica, sociale, religiosa, razziale, culturale ecc.
Il degrado che stiamo vivendo nella nostra società è infatti
a diversi livelli: basti pensare all’incapacità della classe politica di
attuare politiche pubbliche in grado di porre rimedio a problemi quali il
precariato, la disoccupazione, l’evasione fiscale e l’innalzamento dell’età
pensionabile. Problematiche sì di difficile soluzione, soprattutto alla luce
della crisi economica e finanziaria oggi in atto, ma che potrebbero avere degli
spiragli di attuazione se solo le forze politiche in gioco cercassero di
instaurare un dialogo costruttivo per il bene della collettività. Certamente
degli sforzi in questo senso ci sono stati e sono in progetto di essere in
futuro, ma evidentemente ancora non abbastanza da registrare dei progressi
significativi. Naturalmente la crisi economica quanto quella sociale è dovuta
anche ad altri fattori, quali la corruzione, una classe politica non
qualificata e all’altezza, ma anche una scarsa cultura sociale che sia
espressione di una cittadinanza pienamente responsabile. Basti pensare al
successo che il Movimento 5 Stelle ha avuto alle ultime elezioni politiche del
2013, raggiungendo il 25% dei gradimenti: un risultato che è espressione di un
voto di una chiara protesta nei confronti della classe politica[6].
Ma la nostra società vive un’intolleranza che è soprattutto sociale e dalla
quale nasce l’intolleranza politica. L’aumento degli immigrati nel nostro Paese
non è stato accompagnato da una adeguata educazione civica rivolta
all’accoglienza e all’integrazione. L’immigrato è, inconsciamente o meno, visto
come lo straniero che ruba il lavoro, l’assistenza sociale e le case popolari,
diventando così scomodo: viene subito associato alla clandestinità e alla
criminalità, aumentando il senso di allerta e di pericolo nella popolazione e
dando forza a pregiudizi negativi nei suoi confronti. Tutto questo è il
risultato di un mancato processo di integrazione e di accoglienza, oltre che
una incapacità politica di regolamentare i flussi migratori e le entrate degli stranieri.
Fatto sta che movimenti e partiti populisti – in Italia come nel resto d’Europa
– portano avanti campagne di discriminazione e di odio nei confronti degli
stranieri, accostando ad essi le cause di ogni male sociale. Il passo
immediatamente successivo è quello dell’indifferenza. Molto frequentemente
sentiamo in televisione di qualche sbarco di immigrati a Lampedusa, il più
delle volte terminato con centinaia di morti in mare. Eppure questo dramma
sembra non toccarci, lasciandoci quasi indifferenti di fronte alla morte, come
sottolineato da Papa Francesco – che ha usato l’espressione globalizzazione dell’indifferenza - durante
l’omelia della messa celebrata durante il viaggio apostolico a Lampedusa[7].
Si crea così il principio dello straniero nemico individuato
da Levi, sul quale è poi stata creata la crudeltà dell’ideologia nazista,
espressione di una intolleranza ingiustificata e senza limiti.
#migliorisipuò – Anche le parole uccidono
La creazione del nemico, ossia di un capro espiatorio che sia
la causa di tutti i problemi, è il prodotto dell’intolleranza del diverso e
comporta diversi fenomeni sociali quali la discriminazione, la violenza,
l’etichettamento e l’indifferenza. Tutti aspetti in qualche modo intrecciati
fra loro e che sono accomunati dalla chiusura all’accoglienza dell’altro.
Numerose sono le forme di discriminazione, riconducibili alle
tipologie di intolleranza prima nominate, che danno luogo a pregiudizi e luoghi
comuni. La discriminazione può avvenire
inoltre su più piani: essa può essere manifestata infatti attraverso la
violenza fisica oppure attraverso la violenza verbale, con lo scopo comune di
isolare l’altro staccandolo da ogni tipo di legame sociale, abbandonandolo a sé
stesso. Proprio la violenza verbale è forse la forma più subdola di
discriminazione, in quanto logora lentamente la dignità dell’uomo facendogli
pesare la propria condizione umana e sociale.
Photo Credit: Famiglia Cristiana |
Contro questa mentalità Famiglia Cristiana, Avvenire,
l’agenzia di comunicazione Armando Testa e la Federazione italiana settimanali
cattolici (Fisc) hanno dato il via alla campagna sociale Anche le parole uccidono che si inserisce all’interno di un
progetto più ampio, #migliorisipuò[8], che
ha come obiettivo quello di creare iniziative in grado di stimolare la
sensibilità e la crescita sia personale che della società. Secondo la campagna
guidata da Famiglia Cristiana le parole hanno un peso notevole all’interno delle
relazioni sociali e umane: per questo ne sono state scelte quattro (negro,
ladra, terrorista, ciccione), raffigurate come proiettili che trafiggono le
persone a cui sono spesso rivolte. La forza dei manifesti della campagna sta
nei volti delle persone colpite da questi insulti - che sono dei veri e propri
proiettili – e nei loro sguardi pieni di umanità. La Swg ha condotto in questo
senso un sondaggio dal quale emerge come il 66% degli intervistati risulta
essere stato discriminato almeno una volta nella vita mentre il 51% di aver
vissuto episodi come vittima dell’intolleranza. Inoltre tossicodipendenti,
gruppi di rom e mendicanti sono le tre categorie che suscitano negli
intervistati maggior disagio, paura e rabbia, mentre condizione economica,
aspetto fisico, peso e genere sono fra le cause maggiori per le quali gli
italiani si sentono discriminati. Naturalmente i pregiudizi che portano alla
diffidenza e alla discriminazione nascono da esperienze personali come scippi e
insulti, ma anche dalla narrazione collettiva fatta dai media e dagli opinion leader, in grado di alimentare
pregiudizi e sentimenti negativi strillando titoli in prima pagina o
nascondendo determinati eventi creando un’immagine distorta della realtà[9].
Il dramma della guerra
Ricordando la Seconda Guerra Mondiale e leggendo la
testimonianza di Primo Levi possiamo affermare che la storia ci ha insegnato
come da queste forme di discriminazione e di intolleranza sia scaturita una
violenza inaudita sfociata in guerre a volte fratricide. Gli orrori dei campi
di concentramento nazisti e la distruzione delle bombe atomiche ci sembrano
lontani, eppure oggi stiamo vivendo un tempo di guerra caratterizzato da una escalation di intolleranza e violenza
disarmanti. Tutti abbiamo ben impresse nella memoria le immagini degli
attentati alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, data diventata emblematica
e pietra miliare nella storia contemporanea: tale evento ha infatti sancito
l’inizio della cosiddetta guerra al
terrorismo, iniziata con le missioni in Afghanistan nel 2001 e in Iraq nel
2003 da parte degli Stati Uniti in nome della libertà, della pace e della democrazia.
Al Qaeda era la minaccia internazionale a tali valori, il nemico da sconfiggere
ad ogni costo. Lo stato di allerta che è scattato a seguito dell’attentato al
cuore del mondo occidentale ha inevitabilmente creato un pregiudizio nei
confronti dell’Islam e dei musulmani, comportando uno stato di diffidenza
continuo. Da quel giorno in poi vedere un musulmano su un mezzo pubblico così
come vederlo aggirarsi per strada fa scattare in noi, inconsciamente, un senso
di insicurezza, di dubbio, di sospetto. Questa era l’obiettivo di Al Qaeda e
del fondamentalismo islamico: giocare sulle emozioni portando la società
occidentale a non sentirsi più sicura nemmeno a casa propria. Questo perenne
stato di paura ha inevitabilmente comportato uno stato di discriminazione per
quelle persone riconducibili alla religione musulmana: a farne le spese siamo
noi che viviamo con timore la loro presenza nella nostra società e in primis quelle persone che professano
lo propria fede in maniera genuina e sincera, senza aver nulla a che fare con
l’estremismo religioso legato alla jihad[10].
Sicuramente l’entrata in scena dell’Isis (Islamic State of Iraq and Syria) nello
scenario geopolitico internazionale non ha migliorato le cose. La capacità
comunicativa dello Stato Islamico infatti permette a tale organizzazione
terroristica di esercitare una forma di deterrenza nei confronti
dell’Occidente: i video delle decapitazioni degli ostaggi e delle altre forme
brutali di uccisione sono un messaggio di violenza estrema che genera un
terrore ancora superiore a quello degli attentati dei kamikaze di Al Qaeda. Il recente attentato al Museo del Bardo a
Tunisi – nel quale sono morti anche quattro italiani – ha acceso il dibattito
sulla sicurezza internazionale nell’opinione pubblica, in quanto avvenuto
geograficamente molto vicino all’Europa, in un Paese – la Tunisia – che non
destava preoccupazioni in tal senso. Come ha scritto sulla rivista
Internazionale Bernard Guetta – giornalista francese che collabora con
Libération – “se la Tunisia è stata colpita
è perché gli estremisti islamici odiano profondamente tutto ciò che
rappresenta: non solo è un Paese dove le donne sono libere, dove la società
rifiuta ogni forma di estremismo e dove la mobilitazione civica ha impedito
qualsiasi deriva oscurantista dopo il crollo della dittatura, ma è un Paese
dove il grande partito islamico, Ennahda, ha voltato le spalle alla violenza,
rispetta la democrazia e segue la via del compromesso politico[11].
Ciò rientra in una logica totalitaria di eliminazione del diverso, in quanto si
rifiuta la diversità del modello occidentale - dalla cultura alla religione - soprattutto
se tale modello viene ad interagire con un Paese come la Tunisia - dove il 97%
della popolazione è di maggioranza musulmana – che non impone il velo alle
donne e non inserisce la sharia[12]
nella Costituzione”.
Il ruolo della religione
La religione è
sempre stata storicamente uno dei maggiori fattori di contrasto sociale non
solo fra popoli differenti ma anche all’interno di uno stesso popolo. Questa
dinamica conflittuale è però un paradosso, dato che il fine ultimo della
religione dovrebbe essere la solidarietà fra gli uomini e il perseguimento del
bene. Quando al contrario la religione viene interpretata con la presunzione di
eliminare Dio, strumentalizzata politicamente e usata come elemento di
supremazia su altre culture allora la discriminazione e l’intolleranza prendono
il sopravvento, portando al cosiddetto estremismo religioso. Non si parla più
di solidarietà ma di eliminazione dell’infedele, di dialogo interreligioso ma
di proselitismo, di collaborazione ma di competizione: da questa logica
proliferano quindi le guerre sante, gli attentati terroristici e i martiri dei kamikaze. Lo scontro non è solo fra
cristiani e musulmani ma anche fra sunniti e sciiti, fra cattolici e ortodossi
e così via: l’unica soluzione a tali conflitti è la via del dialogo, come ha
più volte ripetuto Papa Francesco nel corso dei suoi viaggi apostolici,
soprattutto in Terra Santa e in Turchia. Il pericolo più grande è quello di
confondere la religione con l’estremismo e il fondamentalismo, come sta
avvenendo in maniera ancora più evidente dopo l’attentato di Parigi alla
redazione della rivista satirica francese Charlie Hebdo: sul web è circolato
l’hashtag #NotInMyName, messaggio
della campagna di solidarietà lanciata da parte di quei musulmani che non
vogliono essere accostati all’estremismo islamico e che in esso non si
rispecchiano, mettendoci direttamente la faccia e condannando duramente la
violenza.
Ma la religione è
purtroppo anche un fattore di divisione politica e proprio l’attentato a
Charlie Hebdo ne è stata la conferma. La violenza usata contro una rivista la
cui linea editoriale è notoriamente contraria a qualsiasi religione ha
fortemente riacceso il dibattito sulla laicità dello Stato e sul ruolo della
religione nella democrazia. L’hashtag #JeSuisCharlie
è stato il canale preferenziale di espressione di tale visione, secondo la
quale non deve esserci nessun limite alla libertà di satira ed opinione.
L’attacco ad un giornale è un attacco alla libertà di stampa e alla voce
dell’opinione pubblica ed è stato un chiaro atto di intolleranza. Detto ciò si
corre il rischio di strumentalizzare la libertà di espressione rendendo
incoerente il concetto stesso di libertà: anche schernire blasfemamente Dio e
la religione è infatti una forma di intolleranza. Il concetto di laicità non
può comportare, in una società civile e democratica, la riduzione al silenzio
della religione, qualunque essa sia: sarebbe infatti una limitazione della
libertà d’opinione e una forma di discriminazione religiosa. Imbrattare il muro
della redazione della rivista cattolica Tempi con escrementi e insulti,
abbattere l’insegna del quotidiano cattolico La Croce così come utilizzare
l’espressione “ultra-cattolici” per riferirsi ai cristiani è una forma di intolleranza
e di etichettamento che è incoerente con il principio stesso del messaggio #JeSuisCharlie.
L’intolleranza e la
violenza non portano al dialogo – sale della democrazia quanto la libertà
d’espressione – ma ad un muro contro muro sterile. Concetto ribadito anche da
Papa Francesco, che ha duramente condannato l’uso della violenza in nome di Dio
durante il suo viaggio in Turchia del 28 novembre 2014:
“La violenza che cerca una
giustificazione religiosa merita la più forte condanna, perché l’Onnipotente è
Dio della vita e della pace. Occorre contrapporre al fanatismo e al
fondamentalismo la solidarietà di tutti i credenti, per bandire ogni forma di
fanatismo e di terrorismo, che umilia gravemente la dignità di tutti gli uomini
e strumentalizza la religione”.
Saggio premiato al concorso EUROPAeGIOVANI 2015 - organizzato dall'IRSE - con la seguente motivazione: "Partendo da alcune considerazioni sul libro Se questo è un Uomo di Primo Levi, l'autore analizza l'intolleranza presente nella società italiana, dovuta anche all'incapacità di adottare adeguate politiche migratorie. Riflette sui modi di manifestare la discriminazione e sul ruolo che la religione può avere come fattore di divisione".
[1] In tedesco il verbo fressen – mangiare – viene usato in riferimento agli animali. Il
verbo utilizzato in riferimento all’essere umano è essen.
[2] P. Levi, Se
questo è un uomo, Einaudi, Torino 1956, p. 44
[3] P. Levi, op.
cit., p. 24
[6] Nel 2013 inoltre l’affluenza al voto è stata del 75%,
il 5% in meno del 2008 quando l’affluenza fu dell’80%: l’astensionismo è un
altro dei fattori che sono espressione della sfiducia e della protesta dei
cittadini nei confronti della politica, allargando la frattura fra governanti e
governati.
[7] Viaggio apostolico compiuto dal Papa l’8 luglio 2013
per esprimere solidarietà alle vittime dello sbarco.
[8] Migliorisipuò,
insieme contro la discriminazione, Famiglia Cristiana, 23 ottobre 2014
[10] Def. Jihad
da Treccani: “jihad (ar. gihād) Nel linguaggio religioso islamico, la ‘guerra santa’ contro gli
infedeli, per l’espansione della comunità ed eventualmente per la sua difesa. È
un dovere collettivo, ma in base alle decisioni del capo della comunità, può
divenire un obbligo individuale di tutti i credenti. Ha inoltre un valore
perpetuo poiché la pace con i non musulmani è una condizione del tutto
provvisoria. Gli sciiti, al contrario dei sunniti che antepongono all’attacco
agli infedeli un chiaro invito alla conversione, pongono la guerra santa tra i
fondamenti (arkān)
dell’Islam”.
[11] B. Guetta, Tunisi,
le ragioni di un massacro, Internazionale, 19 marzo 2015
[12] Def. Sharia
da Treccani: “sharia ‹šarìi῾a› s. f., arabo (propr.
«strada battuta»). – Legge sacra dell’islamismo, basata principalmente sul
Corano e sulla sunna o consuetudine, che raccoglie norme di diverso
carattere, fra le quali si distinguono quelle riguardanti il culto e gli
obblighi rituali da quelle di natura giuridica e politica; di quest’ultimo
gruppo fanno parte le prescrizioni che regolano la conduzione della guerra
santa (v. jihad)”.
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